Circa la stupefacente inconseguenza “keynesiana” del sedicente keynesiano e premio Nobel Joseph Stiglitz ci siamo occupati in passato ( V.Orati, Globalizzazione scientificamente infondata,seconda ed. ampliata, Thyrus, Terni, 2008, Appendice, p.341) cogliendo la più totale inconsistenza della sua posizione a favore di una globalizzazione “buona” dal punto di vista dell’intero impianto metodologico della General Theory. Basti pensare al tono assolutamente moralisteggiante con cui Stiglitz vede la sua versione edulcorata della globalizzazione reale e quindi “cattiva”. Ciò perché il punto di vista moralistico è totalmente non solo alieno ma contrario allo spirito e alla logica che ispira il pensiero economico e sociale del cantabrigese ( che qualcuno assimila a un “immoralista” à la Gide) che non ha mai rinnegato il clima da” libertinismo erudito” che ha caratterizzato il clima intellettuale del gruppo della sua Bloomsbury che rinnova a Londra quello della sua frequentazione alla “Apostols” ovvero alla Cambridge Conversazione Society. Non va dimenticato in tal senso la sua appartenenza al filone degli economisti sottoconsumisti, a cui egli ritiene di fornire infine una rigorosa versione della loro “intuizione”, alla base della quale può ben porsi l’affermazione di Betel-Dumont ( Théorie du luxe,s.l.1771 ) secondo la quale i bisogni naturali portano gli uomini a consumare sempre meno di quanto non siano in grado di produrre ( cfr. C.Borghero, La polemica sul lusso nel settecento francese., Einaudi, Torino, 1974, p.XXXI). Affermazione a cui si può accompagnare quella di Keynes per il quale “ Qualsiasi rimedio possa essere il migliore per risolvere il problema della povertà nell’abbondanza, noi dobbiamo rifiutare tutte quelle soluzioni proposte che consistono, in concreto, nello sbarazzarsi dell’abbondanza. Può essere vero che , per varie ragioni, al crescere dell’abbondanza potenziale si fa più difficile il problema di distribuirne i frutti…” ( J.M. Keynes, Poverty in Plenty: is the Economic System self-Adjusting?”, Collected Works of Keynes, MacMillan – Cambridge University Press,London,1987, vol.XIII, p. 485). Se infatti la vulgata vuole che alla base del Welfare State, pensato in origine da Beveridge e non anche da Keynes, ci sia il paradigma della domanda effettiva, si deve al contrario ricordare che a differenza che nella geometria euclidea dove la retta segna la minor distanza tra due punti, ciò non è vero in economia e segnatamente nella “sintassi” della General Theory. Per il cantabrigese infatti la difesa dell’occupazione non ha autonomia in sé e per sé ma si pone come esito di una relazione analiticamente mediata tra consumi, investimenti e livello del reddito nazionale e quindi da qui ricavare il livello dell’ occupazione. In tal senso egli “fa proprio il punto di vista del suo vecchio amico Henderson:<< Potremo difendere l’occupazione solo a patto di non farne il nostro solo, e nemmeno il nostro principale obiettivo>>”( cfr. A.Minc, Diavolo di un Keynes. La vita di John Maynard Keynes, UTET, Torino, 2008, p.204). E se questa notazione è troppo raffinata dal punto di vista filologico, il punto centrale che milita contro Stiglitz , e altri keynesiani in pallida copia, in materia di globalizzazione e che va fortemente ribadito riguarda l’eclatante pentimento con tanto di autocritica di Keynes nella sua abiura della sua passata ortodossia a favore del free trade. Che d’altronde altro non rappresenta che la coerente estensione in chiave analitica con l’ assunto di “mercato aperto” del clou della sua teoria espressa nel suo magnum opus: il rifiuto radicale del laissez- faire in ipotesi di assenza di scambi con l’estero ( che egli chiama “self-sufficiency”). Il che fa tutt’uno con la rivalutazione presente nella General Theory del mercantilismo e quindi del protezionismo ( book V, chapter 23 : Notes on Mercantilism, the Usury Laws, Stamped Money, and Theories of Under-consumption). Per quanto “buona” e quindi liberata dal “Washington consensus” e dalle vessazioni della burocratica miopia del FMI, la globalizzazione implica l’accettazione della logica di mercato e delle sue presunte virtù autoregolative nel commercio internazionale. E niente è inauditamente tanto antikeynesiano.
Ma neanche la implosione della globalizzazione ha aperto gli occhi a Stiglitz, o almeno è servita a fargli riprendere in mano il testo che fonda la Macroeconomia. Sul supplemento de
Oseremmo dire che tutto ciò potrebbe prefigurare una “buona” globalizzazione professor Stiglitz, ma non certo la sua, totalmente insensibile e cieca dinanzi a quella “paura delle merci” dei mercantilisti che Keynes riammette all’imprimatur di Cambridge; e che la sua paura del protezionismo, esimio professore, consegna allo sciocchezzaio dei benpensanti falso–esperti. Una volta esclusi dalle cariche accademiche e oggi addirittura insigniti del Nobel. Anche per lei valga l’esigenza simbolica di una “denobelizzazione”, accertato che si sia la sua natura di SNOB ( sine nobelitate).
Vittorangelo Orati
Nessun commento:
Posta un commento