mercoledì 9 settembre 2009

Economisti(ci) SNOB ( sine “nobelitate”): (4) Paul Krugman


Prego il lettore di avere pazienza nel leggere quanto andrò a dire a proposito di Paul Krugman, il più recente tra i Nobel Laureate ( 2008). Sarò più lungo che negli analoghi casi precedenti in cui ho inteso dare risalto ad alcuni tra quanti hanno ricevuto immeritatamente il massimo riconoscimento scientifico per l’economia. E ciò perché Krugman è quello che a tali livelli più si è impegnato a trattare, ben prima del suo deflagare, della crisi economica mondiale che stiamo vivendo oggi. Anche se nel prevedere in generale le crisi non ci vuole molto data la “irregular regularity” ciclica ( Schumpeter) con cui esse accompagnano dalla sua nascita il capitalismo. Inoltre Krugman è tornato a parlare della crisi anche dopo che questa è ormai conclamata. Improntando la sua analisi ad accenti critici dinanzi alla superstizione armonicistico-antinterventista , ispirati, di contro, ad una filosofia contrapposta alla malsana religione del “fondamentalismo di mercato” e quindi almeno per questo di dichiarata impronta interventista o “volontarista” ( in quanto contrapposta alla posizione naturalistico- contemplativa) “keynesiana”.
Siccome per definizione una tale posizione deve poter indicare almeno la logica di massima di possibili terapie anticrisi, l’urgenza di vedere cosa si possa ricavare dalla visione del problema da parte di Krugman per poter giudicare circa i massicci interventi pubblici anticiclici in atto si spiega da sé. Rimanendo l’opzione keynesiana l’unico punto di riferimento teorico degli attuali artefici dell’exit strategy dalla recessione globale, per l’ennesima volta smentiti nel loro ottimismo naturalistico-fatalista. Non avendo l’economics e i suoi sacerdoti , gli economisti(ci), nessun altro paradigma presentabile con cui salvare il capitalismo. Dovendo ricordare a tutte lettere e a scanso di equivoci molto diffusi, che, a differenza di quel che credono i marxisti- keynesiani da bancarella e i loro avversari da operetta, Keynes non ha rappresentato altro nella storia dell’analisi e della politica economica che l’equivalente della filosofia sociale del “gattopardismo” ( “cambiare tutto a ché tutto rimanga tal quale”) immortalato da Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo capolavoro letterario.
Potrei in realtà chiudere il discorso riassumendo quanto ho già avuto modo di scrivere ripetutamente sulla assoluta inaffidabilità keynesiana di Krugman. In reazione alla quale ho dimostrato senza ombra di dubbio una sconcertante conclusione: o Krugman non ha mai letto la General Theory , o, ipotesi peggiore per lui, non l’ha capita in uno dei suoi snodi analitici fondamentali. Quelli dove Keynes non fa che estendere coerentemente le sue critiche al laissez-faire in ipotesi di una economia “chiusa” ( senza scambi con l’estero) al free trade , che altro non rappresenta che il laissez-faire nel quadro di una economia che invece effettua scambi sul mercato internazionale. Infatti ripetutamente il nostro premio Nobel è intervenuto nel criticare l’insufficienza quantitativa degli interventi messi in atto in USA contro la crisi, senza minimamente accennare alla loro perniciosità in costanza della globalizzazione e quindi del libero scambio. Ignorando completamente che in tale panorama si definisce una delle migliori occasioni per esercitare la parassitaria e quindi odiosa posizione del free rider ( “clandestino a bordo”) da parte di Stati che volessero farsi finanziare le loro esportazioni da disavvertiti concorrenti “keynesiani “. Stati che dunque finanziassero ortodossamente con deficit spending i loro interventi a sostegno della domanda, così bloccando la deflazione o la minore crescita della inflazione casalinga, finirebbero per incentivare l’importazione dall’estero di merci e servizi provenienti da Paesi che adottassero un più cinico e meno imponente profilo interventista quanto ad effetti sui propri prezzi interni. Insomma, del tutto masochisticamente, Paesi che adottassero politiche a sostegno della domanda globale più massicce e quindi più efficaci dei loro opportunisti concorrenti, fermo rimanendo il panorama di libero scambio vigente sul mercato internazionale, concretizzerebbero esattamente l’opposto delle mire mercantiliste fondate sul principio del beggar-thy- neighbour ( “fregare il vicino”). Finanziando con il proprio deficit pubblico e con il proprio deficit dell’ex-import il surplus della bilancia commerciale dei Paesi concorrenti che fossero semplicemente meno ( al limite ottimizzante, per nulla ) caratterizzati in termini di propensione all’ intervento pubblico nell’economia. Irrilevante rimanendo la circostanza per cui un tale comportamento discendesse da calcolo o da “filosofia” sociale o semplicemente ignoranza. Naturalmente entra in gioco anche l’ignoranza, come ad esempio quella che fa ritenere il ricorso alla Cassa Integrazione come una misura appropriata a contrastare la recessione. Ma di questo non è qui possibile offrire approfondimenti.
Se la rivalutazione del mercantilismo e del protezionismo da parte di Keynes rappresentano in realtà un classico caso di “serendipità” ( trovarsi nel giusto o nel vero per puro caso) rimanendo difendibile una tale scelta a prescindere dalla validità scientifica del paradigma proposto nella General Theory ( bastando per la sua tenuta argomentativa in proposito l’ammissione dell’efficacia antideflattiva solo sintomatica delle misure anticicliche che discendono dal predetto paradigma). Non condividerle ed essere per il resto vagamente in accordo con l’economista di Cambridge circa l’esigenza di adeguate iniezioni di liquidità per sostenere la domanda - in contrapposizione alla filosofia economica ispirata alle posizioni tutte orientate dal lato dell’offerta ( supply side) - vuol dire condividere su un punto essenziale la provata vulnerabilità effettuale oltre che la inconsistenza teorica dell’intero impianto analitico del fondatore della Macroeconomia. Vulnerabilità che va oltre il solo aspetto monetario ( ma che da solo basta e avanza a tal fine ) che qui tratteremo per pure esigenze di spazio. E che a tale condivisione con Keynes nell’errore si riduca la voce discordante di Krugman rispetto al mainstream neoclassico e quanto passiamo a vedere.
Nel 1999 Krugman pubblicava , con coeva traduzione italiana, The Return of Depression Economics (Garzanti, Milano), rivisto e aggiornato alla luce dello scoppio della crisi mondiale con il titolo The Return of Depression Economics and the Crisis of 2008, nel 2009 ( Garzanti, Milano). In entrambe le occasioni la delusione è stata profonda, specialmente per la più recente versione del lavoro in questione a cui l’implosione fragorosa della “globalizzazione” non ha suggerito all’autore alcun ripensamento circa il tono di gran lunga prevalentemente descrittivo degli episodi di instabilità macroeconomica che dalla metà degli anni ’70 hanno marcato la storia economica mondiale, e dove la parte teorico- analitica è addirittura sconcertante per pochezza e inconsistenza scientifica. E che non si tratti a tal ultimo proposito di uno scontato esito di un testo volutamente di intonazione divulgativa e popolare è lo stesso Krugman a smentirlo lì dove anticipa i contenuti e gli intenti dell’ultima e più aggiornata edizione del suo saggio:
“ Permettetemi di dichiarare subito che questo libro è, in fondo, un trattato analitico. Non si occupa tanto di quello che è successo quanto del perché. La cosa importante, credo, è capire come questa catastrofe sia potuta accadere, come possano riprendersi i paesi colpiti e come possiamo evitare che la situazione si ripeta.” ( ed it. cit., 2009, p.10)
Krugman ritiene infatti di darci il succo della sua più rigorosa e scientifica elaborazione teorica senza riproporcela tal quale, in quanto “ le equazioni e i diagrammi caratteristici dell’economia formale rappresentano, il più delle volte, solo una impalcatura utilizzata per mettere in piedi una costruzione intellettuale. Una volta che i lavori di costruzione abbiano raggiunto un certo livello, l’impalcatura può essere tolta, lasciando così solo parole comprensibili”. ( ibidem) E se nella prima edizione del suo libro ci si poteva illudere che finalmente , superata la rimozione dell’arcano delle crisi come fenomeno di “sovrapproduzione assoluta”- rimozione che dopo i classici e in particolare Marx, che ne aveva colto la ineliminabile centralità, ha caratterizzato ( tra l’altro)l’involuzione della teoria economica - Krugman ne tentasse se non una soluzione almeno una necessaria riproposizione, ebbene nella posteriore e più matura versione del suo lavoro il Nostro fa sparire letteralmente ogni traccia della vexata quaestio . Infatti e presumibilmente perché cosciente di non aver gettato né prima né dopo alcun lume sul centrale problema e mistero della “sovrapproduzione assoluta”, nel suo lavoro del 2009 scomparie completamente il seguente accenno ad esso rintracciabile nella prima versione della sua monografia, dove si afferma:
“ Durante un crollo economico, in particolare modo uno di quelli più gravi, sembra che ci sia troppa offerta e niente più domanda […] E’ abbastanza facile osservare come ci possa essere una carenza di domanda su alcuni prodotti[...] Ma come è possibile che, complessivamente, il livello della domanda resti basso?”( ed.it. cit.1999, p.21, corsivo di Krugman).
Se :
1)l’arcano del “glut” o “ingorgo generale di merci” ( nella definizione dei classici) della “sovrapproduzione assoluta” consiste nel fatto per cui contemporaneamente le crisi cicliche si mostrano nei termini per cui di tutto c’è troppa offerta senza rispettiva domanda .
2)Nel mentre la norma dei mercati capitalistici è la “sovrapproduzione relativa” di qualche merce come necessario contraltare della “sottoproduzione relativa” di altre merci, quale fisiologico fenomeno di fasamento progressivo tra domanda e offerta. In cui le quantità seguono le indicazioni dei prezzi aumentando la produzione e quindi l’offerta dove si è prodotto troppo poco rispetto alla relativa domanda e, viceversa, restringendo la produzione e quindi l’offerta lì dove si è prodotto troppo con conseguente caduta dei prezzi rispetto alla relativa domanda .
3)Come si può pretendere di venire a capo dell’inspiegata patologia ciclica delle crisi dove tutta l’offerta è in eccesso rispetto alla domanda aggregata se ci si affida a un risibile strumento come quello del “modello” sottostante la storia narrata nell’articolo di Joan e Richard Swewney dal titolo “La teoria monetaria e la grande crisi della cooprativa di baby sitter di Capital Hill , modello che sulla semplice base di un'unica merce ( in realtà servizio) il “babysitteraggio”, Krugman assume ( “ Non fermatevi al titolo: si tratta di una cosa seria”, ed.it., 1999, p.22) come chiave di volta analitica della sua spiegazione delle crisi e quindi della conseguente “economia della depressione”?
Privo di significato è infatti il concetto stesso di sovrapproduzione sia relativa sia , e massimamente, di sovrapproduzione assoluta in un mondo amebico dove esiste una sola merce (servizio). Ma poiché l’allegoria della cooperativa di Capiital Hill è l’unico apparato analitico cui Krugman consegna il compito di spiegare l’”economia della depressione” è bene capire in cosa consista, dandone una estrema ma più che sufficiente sintesi. Un gruppo di coppie con bambini piccoli costituisce una organizzazione che media tra chi offre e chi richiede servizio di babysitteraggio. Un apposita struttura emette certificati che rappresentano unità di un’ora di tale assistenza ai bambini. Tutto dovrebbe andare per il meglio sul presupposto che in un arco temporale significativo si pervenga ad un bilanciamento o compensazione tra chi cede e chi domanda gli appositi certificati, che hanno tutti i presupposti secondo Krugman di operare come “moneta”. Ma a un cero punto il meccanismo si inceppa perché alcune coppie accumulano e tesoreggiano certificati sottraendoli alla circolazione e con ciò bloccano il sistema che entra in crisi provocando “recessione” : chi avrebbe voluto offrire sorveglianza a bambini altrui richiedendo certificati da spendere in futuro si trovò bloccato dalla scarsità di tali certificati ovvero di chi richiedeva un tale servizio di sorveglianza che dal suo canto li tesoreggiava. Ed ecco cosa il nostro premio Nobel ci rivela dopo aver ribadito l’importanza del ricorso a modelli semplificati della realtà in ogni campo scientifico e il fatto che la “ cooperativa di baby-sitter di Capital Hill era un sistema economico in miniatura- in realtà era una piccola economia in grado di sperimentare un momento di recessione” ( tr.it., 2009, pp.22-23): niente meno che la vecchia e inservibile “teoria quantitativa della moneta”. Infatti dopo aver evidenziato che nel caso esaminato la soluzione da adottarsi è quella di far aumentare l’emissione o offerta di certificati o di buoni di babysitteraggio da parte della struttura appositamente creata dalla cooperativa ( operante come “Banca d’Emissione”)e per i duri di comprendonio che non avessero capito l’apologo, Krugman afferma: “ le recessioni , in altre parole, possono essere sconfitte semplicemente stampando nuova moneta” ( ivi, pp.24-25).
Possiamo tagliar corto senza per questo poter essere accusati di giustizia sommaria data la gravità inaudita della posizione assunta da Krugman appena vista. Pur perdonandogli il ricorso a un “cattivo modello” ( quello amebico della cooperativa di Capital Hill) - e convenendo sulla esigenza scientifica del ricorso ai “ modelli” esigenza pari però a quella che distingua quelli “buoni” dagli altri – riassumiamo brevemente quanto abbiamo confutato inappellabilmente da almeno tre lustri a proposito della “teoria quantitativa della moneta” e segnatamente del ricorso ad essa nelle inutili e fallimentari plurisecolari “spiegazioni” delle crisi cicliche che segnano il DNA della storia dell’accumulazione capitalistica. Affermare, come ripete senza coscienza alcuna del fallimento teorico in argomento, come fa Krugman che le crisi e le conseguenti recessioni derivano da una offerta insufficiente di moneta significa assumere che la quantità offerta di moneta è una grandezza esogenamente variabile e quindi con andamento casuale nel tempo. Pertanto se da tale variabile dipendesse il verificarsi delle crisi e conseguenti recessioni di ciclo non si potrebbe né si dovrebbe parlare. La crisi è infatti il luogo da cui origina e trova la sua causa la recessione e seppure i cicli si susseguono con “irregular regularity” ( Schumpeter) tale andamento per definizione non può dipendere da una causa che altrettanto per definizione, in quanto esogena o indipendente, ha un andamento del tutto casuale e quindi non ciclico. Inoltre, e qui troviamo la sospetta soppressione di ogni riferimento al carattere di “sovrapproduzione assoluta” in cui consistono le crisi, è evidente come per la teoria quantitativa in questione di questa “sovrapproduzione assoluta” non ci sarebbe neanche l’ombra se le crisi fossero determinate da insufficiente offerta di moneta rispetto alla sua domanda in termini di merci. Domanda che consistendo in tutti gli altri beni che si offrono a fronte di moneta provocherebbe sovrapproduzione relativa di queste ultime rispetto a sottoproduzione o insufficiente offerta di moneta contro merci. La generale deflazione ( svalutazione delle merci in termini di moneta e rivalutazione della stessa in termini del suo potere di acquisto di merci) che accompagna le crisi configurerebbe un fisiologico fasarsi progressivo tra domanda e offerta. La vera sfida teorica da raccogliere sta nel paradosso per cui la moneta per sua natura offerta endogenamente e quindi sempre in quantità sufficiente per alimentare un ciclo produttivo complessivo non permette (apparentemente in modo paradossale ) la chiusura di un tale ciclo produttivo in equilibrio. Sicché la penuria o fame di moneta che pure si manifesta in caso di crisi non può che sottendere ben altra spiegazione della crisi come ben aveva denunciato John Stuart Mill sin dalla prima metà del secolo XIX includendo il problema tra gli “ Essays on Some Unsettled Questions of Political Economy” (1830) esplicitando il suo paradosso che così può enunciarsi : “ della mancanza e quindi della importanza della moneta ci si accorge solo in occasione delle crisi”. Il che , nei termini analitici in cui abbiamo reso la questione , significa che non può essere che una grandezza offerta in modo del tutto casuale ( esogenamente) sia in generale sufficiente rispetto alla domanda da cui è indipendente , nel mentre risulta solo ciclicamente insufficiente ( in occasione delle crisi). Atteggiandosi quindi una volta ( e in generale) come una grandezza endogena ( sempre sufficiente rispetto alla domanda) e un’altra volta, in caso di crisi, atteggiandosi come una grandezza esogena. Infatti la moneta deve potersi definire in termini di disgiunzione esclusiva ( aut aut) sempre o come variabile esogena, o come variabile endogena, ma non una volta l’una e un’altra volta l’altra delle due possibili definitive opzioni.
D’altronde pur rimanendo nei confini del dubbio modello “ cooperativa di Capital Hill”, come si fa a non comprendere che quand’anche si sia intesa la necessità di un inutile centro di emissione dei certificati di babysitteraggio e l’inutilità di questa stessi certificati ( “moneta”),la negligenza di tale centro nel ”battere moneta” non avrebbe potuto determinare alcuna “recessione” nella realtà costituita tra le coppie che la animavano, potendosi del tutto naturalmente ovviare all’”irrazionale” comportamento di chi quei certificati avesse avuto a tesoreggiare stabilendo reciproche promesse di “pagamento” ( magari con semplici tacche su un quadernetto o la lavagna della spesa in cucina)in termini di ore di sorveglianza di bambini di quanti altri avessero voluto continuare a scambiarsi un tale servizio. Il che la dice lunga, oltre che sulla natura endogena della quantità di moneta richiesta da un determinato plesso socioeconomico, anche sul fatto che la semplice tesaurizzazione della stessa moneta non può bloccare il normale svolgersi dei processi “produttivi” di un dato sistema economico. Persino in presenza di un regime monetario metallico, dove la natura ( miniere) sembrerebbe definire un limite alla quantità di moneta disponibile, occorre ricordare che in tal caso è la velocità di circolazione della moneta stessa ad ovviare a tale vincolo e che la trasformazione dei tesori in moneta (attraverso fusione e coniazione della stessa ) e viceversa ( trasformazione di moneta in gioielli et similia ) con la creazione di costanti riserve di moneta da immettere in circolazione in conseguenza dell’aumento generale del livello dei prezzi ( e non causando appunto l’inflazione), ovvero ritirandola dalla circolazione in caso di una diminuzione di tale livello generale dei prezzi (anche qui effetto e non causa corrispettivamente di deflazione) non avrebbe mai dovuto indurre all’errore della tradizionale interpretazione dell’equazione di Hume fatta propria dalla pervicace e tristemente intramontabile “teoria quantitativa della moneta” (errore che ha goduto della stessa autorità di Ricardo che vi è incorso). Lo stesso Pigou, con la semplice ipotesi che la moneta domandata comprende non solo la quantità di essa da spendere immediatamente ma anche una sua riserva o scorta - che aumenta o diminuisce in funzione della diminuzione o dell’aumento rispettivamente del livello generale dei prezzi (“effetto Pigou” ) - costrinse Keynes a supporre nella General Theory la costanza del livello dei prezzi . Vincolandola sua teoria alla del tutto irrilevante configurazione di una crisi che oltre a lasciare oscura e inspiegata la vera natura delle crisi come un caso di sovrapproduzione assoluta risolve questa in una banale e fisiologica sovrapproduzione/sottoproduzione relative e alla del tutto irrealistica tesi di una crisi privata del suo necessario pendent monetario , la deflazione o caduta generale dl livello dei prezzi. Affidando al mutamento delle scorte il ruolo che spetterebbe al mutamento dei prezzi, recuperando così la teoria quantitativa e quindi il difetto di moneta come causa di crisi attraverso l’opportuno mutare del solo saggio d’interesse . Saggio d’interesse che a un dato livello criticamente troppo basso indurrebbe il fenomeno della “trappola della liquidità” provocando una domanda praticamente infinita di moneta congelata in forma liquida. Dunque moneta detenuta in forma liquida significa moneta né spesa né risparmiata in banca in modo da poter essere ad altri prestata. Circostanza quest’ultima che farebbe in modo che il saggio d’interesse risulti contemporaneamente relativamente troppo alto per gli investitori potenziali . Infatti una volta prestata la quantità di moneta altrimenti detenuta in forma liquida questa farebbe abbassare il tasso d’interesse permettendo il verificarsi dell’eguaglianza neoclassica dell’equilibrio tra risparmi e investimenti a qualunque livello di tali grandezze( caso speciale della sua “teoria generale” secondo Keynes che nega per definizio9ne la possibilità stessa delle crisi). Non ammettendo i neoclassici alternativa terza tra la sola possibilità di consumo o risparmio, non riconoscendo alla moneta e al suo possesso in forma liquida alcun senso al di fuori del poterla spendere o risparmiare. Nel mentre la critica ad essi mossa da Keynes prevede che la rinuncia alla liquidità abbia proprio come prezzo il tasso d’interesse ( così ridefinito in luogo di prezzo per la rinuncia al consumo) potendosi disporre di essa a fini speculativi.
Insomma anche se la articolazione keynesiana originale è ben altra dinanzi al disarmante amebico “modello” formato “cooperativa Capital Hill”, e quindi assimilare Krugman a Keynes è del tutto immeritato per il secondo, è indubbio come il keynesismo del primo in materia monetaria per quanto visto sia sufficiente nell’essenziale a contaminare fallimentarmente il suo presunto rachitico tentativo di spiegare la crisi economica di oggi insieme a quelle di sempre. Per cui possiamo concludere che se pure in mancanza di scoperte originali il Nobel per l’economia si dovesse assegnare per una buona tesi di laurea che facesse mera ricognizione del già conosciuto e problematico, Krugman “il keynesiano” dovrebbe restituire l’alloro di cui è stato insignito. Siamo insomma in piena e ancora una volta fragorosa dimostrazione di un economista SNOB, sine “nobelitate” dunque, a dimostrazione della forte esigenza simbolica di una auspicabile denobelizzazione. Questo ci porta a suggerire un possibile e del tutto nuovo recupero della “teoria quantitativa della moneta” che per i suoi secolari seppur inutili servigi sarebbe, non fosse che per questo, ingiusto condannare all’oblio scientifico. Il suggerimento è il seguente:stabilire quanta moneta è stata sprecata per i Premi Nobel e relativi negativi spin-off. Una volta dati gli input necessari , ecco definita una bella ricerca per puri e copiosissimi spiriti applicativi: tanto per distrarli da tanti cattivi e supposti alti ”maestri”.
Vittorangelo Orati

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