martedì 29 settembre 2009

Rai Uno - Rubrica "Libri"

Persino la "provincia" migliore si rende conto del valore sia pure di schegge della mia più ampia "ricerca". Nel caso del seguente video intanto si ricorda la "prestigiosa" rivista fondata da Piero Calamandrei Il Ponte in quanto si recensisce un mio scritto, dove solo di passata si accenna ai titoli di altri due saggi del periodico fiorentino

mercoledì 9 settembre 2009

Economisti(ci) SNOB ( sine “nobelitate”): (4) Paul Krugman


Prego il lettore di avere pazienza nel leggere quanto andrò a dire a proposito di Paul Krugman, il più recente tra i Nobel Laureate ( 2008). Sarò più lungo che negli analoghi casi precedenti in cui ho inteso dare risalto ad alcuni tra quanti hanno ricevuto immeritatamente il massimo riconoscimento scientifico per l’economia. E ciò perché Krugman è quello che a tali livelli più si è impegnato a trattare, ben prima del suo deflagare, della crisi economica mondiale che stiamo vivendo oggi. Anche se nel prevedere in generale le crisi non ci vuole molto data la “irregular regularity” ciclica ( Schumpeter) con cui esse accompagnano dalla sua nascita il capitalismo. Inoltre Krugman è tornato a parlare della crisi anche dopo che questa è ormai conclamata. Improntando la sua analisi ad accenti critici dinanzi alla superstizione armonicistico-antinterventista , ispirati, di contro, ad una filosofia contrapposta alla malsana religione del “fondamentalismo di mercato” e quindi almeno per questo di dichiarata impronta interventista o “volontarista” ( in quanto contrapposta alla posizione naturalistico- contemplativa) “keynesiana”.
Siccome per definizione una tale posizione deve poter indicare almeno la logica di massima di possibili terapie anticrisi, l’urgenza di vedere cosa si possa ricavare dalla visione del problema da parte di Krugman per poter giudicare circa i massicci interventi pubblici anticiclici in atto si spiega da sé. Rimanendo l’opzione keynesiana l’unico punto di riferimento teorico degli attuali artefici dell’exit strategy dalla recessione globale, per l’ennesima volta smentiti nel loro ottimismo naturalistico-fatalista. Non avendo l’economics e i suoi sacerdoti , gli economisti(ci), nessun altro paradigma presentabile con cui salvare il capitalismo. Dovendo ricordare a tutte lettere e a scanso di equivoci molto diffusi, che, a differenza di quel che credono i marxisti- keynesiani da bancarella e i loro avversari da operetta, Keynes non ha rappresentato altro nella storia dell’analisi e della politica economica che l’equivalente della filosofia sociale del “gattopardismo” ( “cambiare tutto a ché tutto rimanga tal quale”) immortalato da Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo capolavoro letterario.
Potrei in realtà chiudere il discorso riassumendo quanto ho già avuto modo di scrivere ripetutamente sulla assoluta inaffidabilità keynesiana di Krugman. In reazione alla quale ho dimostrato senza ombra di dubbio una sconcertante conclusione: o Krugman non ha mai letto la General Theory , o, ipotesi peggiore per lui, non l’ha capita in uno dei suoi snodi analitici fondamentali. Quelli dove Keynes non fa che estendere coerentemente le sue critiche al laissez-faire in ipotesi di una economia “chiusa” ( senza scambi con l’estero) al free trade , che altro non rappresenta che il laissez-faire nel quadro di una economia che invece effettua scambi sul mercato internazionale. Infatti ripetutamente il nostro premio Nobel è intervenuto nel criticare l’insufficienza quantitativa degli interventi messi in atto in USA contro la crisi, senza minimamente accennare alla loro perniciosità in costanza della globalizzazione e quindi del libero scambio. Ignorando completamente che in tale panorama si definisce una delle migliori occasioni per esercitare la parassitaria e quindi odiosa posizione del free rider ( “clandestino a bordo”) da parte di Stati che volessero farsi finanziare le loro esportazioni da disavvertiti concorrenti “keynesiani “. Stati che dunque finanziassero ortodossamente con deficit spending i loro interventi a sostegno della domanda, così bloccando la deflazione o la minore crescita della inflazione casalinga, finirebbero per incentivare l’importazione dall’estero di merci e servizi provenienti da Paesi che adottassero un più cinico e meno imponente profilo interventista quanto ad effetti sui propri prezzi interni. Insomma, del tutto masochisticamente, Paesi che adottassero politiche a sostegno della domanda globale più massicce e quindi più efficaci dei loro opportunisti concorrenti, fermo rimanendo il panorama di libero scambio vigente sul mercato internazionale, concretizzerebbero esattamente l’opposto delle mire mercantiliste fondate sul principio del beggar-thy- neighbour ( “fregare il vicino”). Finanziando con il proprio deficit pubblico e con il proprio deficit dell’ex-import il surplus della bilancia commerciale dei Paesi concorrenti che fossero semplicemente meno ( al limite ottimizzante, per nulla ) caratterizzati in termini di propensione all’ intervento pubblico nell’economia. Irrilevante rimanendo la circostanza per cui un tale comportamento discendesse da calcolo o da “filosofia” sociale o semplicemente ignoranza. Naturalmente entra in gioco anche l’ignoranza, come ad esempio quella che fa ritenere il ricorso alla Cassa Integrazione come una misura appropriata a contrastare la recessione. Ma di questo non è qui possibile offrire approfondimenti.
Se la rivalutazione del mercantilismo e del protezionismo da parte di Keynes rappresentano in realtà un classico caso di “serendipità” ( trovarsi nel giusto o nel vero per puro caso) rimanendo difendibile una tale scelta a prescindere dalla validità scientifica del paradigma proposto nella General Theory ( bastando per la sua tenuta argomentativa in proposito l’ammissione dell’efficacia antideflattiva solo sintomatica delle misure anticicliche che discendono dal predetto paradigma). Non condividerle ed essere per il resto vagamente in accordo con l’economista di Cambridge circa l’esigenza di adeguate iniezioni di liquidità per sostenere la domanda - in contrapposizione alla filosofia economica ispirata alle posizioni tutte orientate dal lato dell’offerta ( supply side) - vuol dire condividere su un punto essenziale la provata vulnerabilità effettuale oltre che la inconsistenza teorica dell’intero impianto analitico del fondatore della Macroeconomia. Vulnerabilità che va oltre il solo aspetto monetario ( ma che da solo basta e avanza a tal fine ) che qui tratteremo per pure esigenze di spazio. E che a tale condivisione con Keynes nell’errore si riduca la voce discordante di Krugman rispetto al mainstream neoclassico e quanto passiamo a vedere.
Nel 1999 Krugman pubblicava , con coeva traduzione italiana, The Return of Depression Economics (Garzanti, Milano), rivisto e aggiornato alla luce dello scoppio della crisi mondiale con il titolo The Return of Depression Economics and the Crisis of 2008, nel 2009 ( Garzanti, Milano). In entrambe le occasioni la delusione è stata profonda, specialmente per la più recente versione del lavoro in questione a cui l’implosione fragorosa della “globalizzazione” non ha suggerito all’autore alcun ripensamento circa il tono di gran lunga prevalentemente descrittivo degli episodi di instabilità macroeconomica che dalla metà degli anni ’70 hanno marcato la storia economica mondiale, e dove la parte teorico- analitica è addirittura sconcertante per pochezza e inconsistenza scientifica. E che non si tratti a tal ultimo proposito di uno scontato esito di un testo volutamente di intonazione divulgativa e popolare è lo stesso Krugman a smentirlo lì dove anticipa i contenuti e gli intenti dell’ultima e più aggiornata edizione del suo saggio:
“ Permettetemi di dichiarare subito che questo libro è, in fondo, un trattato analitico. Non si occupa tanto di quello che è successo quanto del perché. La cosa importante, credo, è capire come questa catastrofe sia potuta accadere, come possano riprendersi i paesi colpiti e come possiamo evitare che la situazione si ripeta.” ( ed it. cit., 2009, p.10)
Krugman ritiene infatti di darci il succo della sua più rigorosa e scientifica elaborazione teorica senza riproporcela tal quale, in quanto “ le equazioni e i diagrammi caratteristici dell’economia formale rappresentano, il più delle volte, solo una impalcatura utilizzata per mettere in piedi una costruzione intellettuale. Una volta che i lavori di costruzione abbiano raggiunto un certo livello, l’impalcatura può essere tolta, lasciando così solo parole comprensibili”. ( ibidem) E se nella prima edizione del suo libro ci si poteva illudere che finalmente , superata la rimozione dell’arcano delle crisi come fenomeno di “sovrapproduzione assoluta”- rimozione che dopo i classici e in particolare Marx, che ne aveva colto la ineliminabile centralità, ha caratterizzato ( tra l’altro)l’involuzione della teoria economica - Krugman ne tentasse se non una soluzione almeno una necessaria riproposizione, ebbene nella posteriore e più matura versione del suo lavoro il Nostro fa sparire letteralmente ogni traccia della vexata quaestio . Infatti e presumibilmente perché cosciente di non aver gettato né prima né dopo alcun lume sul centrale problema e mistero della “sovrapproduzione assoluta”, nel suo lavoro del 2009 scomparie completamente il seguente accenno ad esso rintracciabile nella prima versione della sua monografia, dove si afferma:
“ Durante un crollo economico, in particolare modo uno di quelli più gravi, sembra che ci sia troppa offerta e niente più domanda […] E’ abbastanza facile osservare come ci possa essere una carenza di domanda su alcuni prodotti[...] Ma come è possibile che, complessivamente, il livello della domanda resti basso?”( ed.it. cit.1999, p.21, corsivo di Krugman).
Se :
1)l’arcano del “glut” o “ingorgo generale di merci” ( nella definizione dei classici) della “sovrapproduzione assoluta” consiste nel fatto per cui contemporaneamente le crisi cicliche si mostrano nei termini per cui di tutto c’è troppa offerta senza rispettiva domanda .
2)Nel mentre la norma dei mercati capitalistici è la “sovrapproduzione relativa” di qualche merce come necessario contraltare della “sottoproduzione relativa” di altre merci, quale fisiologico fenomeno di fasamento progressivo tra domanda e offerta. In cui le quantità seguono le indicazioni dei prezzi aumentando la produzione e quindi l’offerta dove si è prodotto troppo poco rispetto alla relativa domanda e, viceversa, restringendo la produzione e quindi l’offerta lì dove si è prodotto troppo con conseguente caduta dei prezzi rispetto alla relativa domanda .
3)Come si può pretendere di venire a capo dell’inspiegata patologia ciclica delle crisi dove tutta l’offerta è in eccesso rispetto alla domanda aggregata se ci si affida a un risibile strumento come quello del “modello” sottostante la storia narrata nell’articolo di Joan e Richard Swewney dal titolo “La teoria monetaria e la grande crisi della cooprativa di baby sitter di Capital Hill , modello che sulla semplice base di un'unica merce ( in realtà servizio) il “babysitteraggio”, Krugman assume ( “ Non fermatevi al titolo: si tratta di una cosa seria”, ed.it., 1999, p.22) come chiave di volta analitica della sua spiegazione delle crisi e quindi della conseguente “economia della depressione”?
Privo di significato è infatti il concetto stesso di sovrapproduzione sia relativa sia , e massimamente, di sovrapproduzione assoluta in un mondo amebico dove esiste una sola merce (servizio). Ma poiché l’allegoria della cooperativa di Capiital Hill è l’unico apparato analitico cui Krugman consegna il compito di spiegare l’”economia della depressione” è bene capire in cosa consista, dandone una estrema ma più che sufficiente sintesi. Un gruppo di coppie con bambini piccoli costituisce una organizzazione che media tra chi offre e chi richiede servizio di babysitteraggio. Un apposita struttura emette certificati che rappresentano unità di un’ora di tale assistenza ai bambini. Tutto dovrebbe andare per il meglio sul presupposto che in un arco temporale significativo si pervenga ad un bilanciamento o compensazione tra chi cede e chi domanda gli appositi certificati, che hanno tutti i presupposti secondo Krugman di operare come “moneta”. Ma a un cero punto il meccanismo si inceppa perché alcune coppie accumulano e tesoreggiano certificati sottraendoli alla circolazione e con ciò bloccano il sistema che entra in crisi provocando “recessione” : chi avrebbe voluto offrire sorveglianza a bambini altrui richiedendo certificati da spendere in futuro si trovò bloccato dalla scarsità di tali certificati ovvero di chi richiedeva un tale servizio di sorveglianza che dal suo canto li tesoreggiava. Ed ecco cosa il nostro premio Nobel ci rivela dopo aver ribadito l’importanza del ricorso a modelli semplificati della realtà in ogni campo scientifico e il fatto che la “ cooperativa di baby-sitter di Capital Hill era un sistema economico in miniatura- in realtà era una piccola economia in grado di sperimentare un momento di recessione” ( tr.it., 2009, pp.22-23): niente meno che la vecchia e inservibile “teoria quantitativa della moneta”. Infatti dopo aver evidenziato che nel caso esaminato la soluzione da adottarsi è quella di far aumentare l’emissione o offerta di certificati o di buoni di babysitteraggio da parte della struttura appositamente creata dalla cooperativa ( operante come “Banca d’Emissione”)e per i duri di comprendonio che non avessero capito l’apologo, Krugman afferma: “ le recessioni , in altre parole, possono essere sconfitte semplicemente stampando nuova moneta” ( ivi, pp.24-25).
Possiamo tagliar corto senza per questo poter essere accusati di giustizia sommaria data la gravità inaudita della posizione assunta da Krugman appena vista. Pur perdonandogli il ricorso a un “cattivo modello” ( quello amebico della cooperativa di Capital Hill) - e convenendo sulla esigenza scientifica del ricorso ai “ modelli” esigenza pari però a quella che distingua quelli “buoni” dagli altri – riassumiamo brevemente quanto abbiamo confutato inappellabilmente da almeno tre lustri a proposito della “teoria quantitativa della moneta” e segnatamente del ricorso ad essa nelle inutili e fallimentari plurisecolari “spiegazioni” delle crisi cicliche che segnano il DNA della storia dell’accumulazione capitalistica. Affermare, come ripete senza coscienza alcuna del fallimento teorico in argomento, come fa Krugman che le crisi e le conseguenti recessioni derivano da una offerta insufficiente di moneta significa assumere che la quantità offerta di moneta è una grandezza esogenamente variabile e quindi con andamento casuale nel tempo. Pertanto se da tale variabile dipendesse il verificarsi delle crisi e conseguenti recessioni di ciclo non si potrebbe né si dovrebbe parlare. La crisi è infatti il luogo da cui origina e trova la sua causa la recessione e seppure i cicli si susseguono con “irregular regularity” ( Schumpeter) tale andamento per definizione non può dipendere da una causa che altrettanto per definizione, in quanto esogena o indipendente, ha un andamento del tutto casuale e quindi non ciclico. Inoltre, e qui troviamo la sospetta soppressione di ogni riferimento al carattere di “sovrapproduzione assoluta” in cui consistono le crisi, è evidente come per la teoria quantitativa in questione di questa “sovrapproduzione assoluta” non ci sarebbe neanche l’ombra se le crisi fossero determinate da insufficiente offerta di moneta rispetto alla sua domanda in termini di merci. Domanda che consistendo in tutti gli altri beni che si offrono a fronte di moneta provocherebbe sovrapproduzione relativa di queste ultime rispetto a sottoproduzione o insufficiente offerta di moneta contro merci. La generale deflazione ( svalutazione delle merci in termini di moneta e rivalutazione della stessa in termini del suo potere di acquisto di merci) che accompagna le crisi configurerebbe un fisiologico fasarsi progressivo tra domanda e offerta. La vera sfida teorica da raccogliere sta nel paradosso per cui la moneta per sua natura offerta endogenamente e quindi sempre in quantità sufficiente per alimentare un ciclo produttivo complessivo non permette (apparentemente in modo paradossale ) la chiusura di un tale ciclo produttivo in equilibrio. Sicché la penuria o fame di moneta che pure si manifesta in caso di crisi non può che sottendere ben altra spiegazione della crisi come ben aveva denunciato John Stuart Mill sin dalla prima metà del secolo XIX includendo il problema tra gli “ Essays on Some Unsettled Questions of Political Economy” (1830) esplicitando il suo paradosso che così può enunciarsi : “ della mancanza e quindi della importanza della moneta ci si accorge solo in occasione delle crisi”. Il che , nei termini analitici in cui abbiamo reso la questione , significa che non può essere che una grandezza offerta in modo del tutto casuale ( esogenamente) sia in generale sufficiente rispetto alla domanda da cui è indipendente , nel mentre risulta solo ciclicamente insufficiente ( in occasione delle crisi). Atteggiandosi quindi una volta ( e in generale) come una grandezza endogena ( sempre sufficiente rispetto alla domanda) e un’altra volta, in caso di crisi, atteggiandosi come una grandezza esogena. Infatti la moneta deve potersi definire in termini di disgiunzione esclusiva ( aut aut) sempre o come variabile esogena, o come variabile endogena, ma non una volta l’una e un’altra volta l’altra delle due possibili definitive opzioni.
D’altronde pur rimanendo nei confini del dubbio modello “ cooperativa di Capital Hill”, come si fa a non comprendere che quand’anche si sia intesa la necessità di un inutile centro di emissione dei certificati di babysitteraggio e l’inutilità di questa stessi certificati ( “moneta”),la negligenza di tale centro nel ”battere moneta” non avrebbe potuto determinare alcuna “recessione” nella realtà costituita tra le coppie che la animavano, potendosi del tutto naturalmente ovviare all’”irrazionale” comportamento di chi quei certificati avesse avuto a tesoreggiare stabilendo reciproche promesse di “pagamento” ( magari con semplici tacche su un quadernetto o la lavagna della spesa in cucina)in termini di ore di sorveglianza di bambini di quanti altri avessero voluto continuare a scambiarsi un tale servizio. Il che la dice lunga, oltre che sulla natura endogena della quantità di moneta richiesta da un determinato plesso socioeconomico, anche sul fatto che la semplice tesaurizzazione della stessa moneta non può bloccare il normale svolgersi dei processi “produttivi” di un dato sistema economico. Persino in presenza di un regime monetario metallico, dove la natura ( miniere) sembrerebbe definire un limite alla quantità di moneta disponibile, occorre ricordare che in tal caso è la velocità di circolazione della moneta stessa ad ovviare a tale vincolo e che la trasformazione dei tesori in moneta (attraverso fusione e coniazione della stessa ) e viceversa ( trasformazione di moneta in gioielli et similia ) con la creazione di costanti riserve di moneta da immettere in circolazione in conseguenza dell’aumento generale del livello dei prezzi ( e non causando appunto l’inflazione), ovvero ritirandola dalla circolazione in caso di una diminuzione di tale livello generale dei prezzi (anche qui effetto e non causa corrispettivamente di deflazione) non avrebbe mai dovuto indurre all’errore della tradizionale interpretazione dell’equazione di Hume fatta propria dalla pervicace e tristemente intramontabile “teoria quantitativa della moneta” (errore che ha goduto della stessa autorità di Ricardo che vi è incorso). Lo stesso Pigou, con la semplice ipotesi che la moneta domandata comprende non solo la quantità di essa da spendere immediatamente ma anche una sua riserva o scorta - che aumenta o diminuisce in funzione della diminuzione o dell’aumento rispettivamente del livello generale dei prezzi (“effetto Pigou” ) - costrinse Keynes a supporre nella General Theory la costanza del livello dei prezzi . Vincolandola sua teoria alla del tutto irrilevante configurazione di una crisi che oltre a lasciare oscura e inspiegata la vera natura delle crisi come un caso di sovrapproduzione assoluta risolve questa in una banale e fisiologica sovrapproduzione/sottoproduzione relative e alla del tutto irrealistica tesi di una crisi privata del suo necessario pendent monetario , la deflazione o caduta generale dl livello dei prezzi. Affidando al mutamento delle scorte il ruolo che spetterebbe al mutamento dei prezzi, recuperando così la teoria quantitativa e quindi il difetto di moneta come causa di crisi attraverso l’opportuno mutare del solo saggio d’interesse . Saggio d’interesse che a un dato livello criticamente troppo basso indurrebbe il fenomeno della “trappola della liquidità” provocando una domanda praticamente infinita di moneta congelata in forma liquida. Dunque moneta detenuta in forma liquida significa moneta né spesa né risparmiata in banca in modo da poter essere ad altri prestata. Circostanza quest’ultima che farebbe in modo che il saggio d’interesse risulti contemporaneamente relativamente troppo alto per gli investitori potenziali . Infatti una volta prestata la quantità di moneta altrimenti detenuta in forma liquida questa farebbe abbassare il tasso d’interesse permettendo il verificarsi dell’eguaglianza neoclassica dell’equilibrio tra risparmi e investimenti a qualunque livello di tali grandezze( caso speciale della sua “teoria generale” secondo Keynes che nega per definizio9ne la possibilità stessa delle crisi). Non ammettendo i neoclassici alternativa terza tra la sola possibilità di consumo o risparmio, non riconoscendo alla moneta e al suo possesso in forma liquida alcun senso al di fuori del poterla spendere o risparmiare. Nel mentre la critica ad essi mossa da Keynes prevede che la rinuncia alla liquidità abbia proprio come prezzo il tasso d’interesse ( così ridefinito in luogo di prezzo per la rinuncia al consumo) potendosi disporre di essa a fini speculativi.
Insomma anche se la articolazione keynesiana originale è ben altra dinanzi al disarmante amebico “modello” formato “cooperativa Capital Hill”, e quindi assimilare Krugman a Keynes è del tutto immeritato per il secondo, è indubbio come il keynesismo del primo in materia monetaria per quanto visto sia sufficiente nell’essenziale a contaminare fallimentarmente il suo presunto rachitico tentativo di spiegare la crisi economica di oggi insieme a quelle di sempre. Per cui possiamo concludere che se pure in mancanza di scoperte originali il Nobel per l’economia si dovesse assegnare per una buona tesi di laurea che facesse mera ricognizione del già conosciuto e problematico, Krugman “il keynesiano” dovrebbe restituire l’alloro di cui è stato insignito. Siamo insomma in piena e ancora una volta fragorosa dimostrazione di un economista SNOB, sine “nobelitate” dunque, a dimostrazione della forte esigenza simbolica di una auspicabile denobelizzazione. Questo ci porta a suggerire un possibile e del tutto nuovo recupero della “teoria quantitativa della moneta” che per i suoi secolari seppur inutili servigi sarebbe, non fosse che per questo, ingiusto condannare all’oblio scientifico. Il suggerimento è il seguente:stabilire quanta moneta è stata sprecata per i Premi Nobel e relativi negativi spin-off. Una volta dati gli input necessari , ecco definita una bella ricerca per puri e copiosissimi spiriti applicativi: tanto per distrarli da tanti cattivi e supposti alti ”maestri”.
Vittorangelo Orati

Economisti(ci) SNOB ( sine “nobelitate”): (3) Joseph Stiglitz


Circa la stupefacente inconseguenza “keynesiana” del sedicente keynesiano e premio Nobel Joseph Stiglitz ci siamo occupati in passato ( V.Orati, Globalizzazione scientificamente infondata,seconda ed. ampliata, Thyrus, Terni, 2008, Appendice, p.341) cogliendo la più totale inconsistenza della sua posizione a favore di una globalizzazione “buona” dal punto di vista dell’intero impianto metodologico della General Theory. Basti pensare al tono assolutamente moralisteggiante con cui Stiglitz vede la sua versione edulcorata della globalizzazione reale e quindi “cattiva”. Ciò perché il punto di vista moralistico è totalmente non solo alieno ma contrario allo spirito e alla logica che ispira il pensiero economico e sociale del cantabrigese ( che qualcuno assimila a un “immoralista” à la Gide) che non ha mai rinnegato il clima da” libertinismo erudito” che ha caratterizzato il clima intellettuale del gruppo della sua Bloomsbury che rinnova a Londra quello della sua frequentazione alla “Apostols” ovvero alla Cambridge Conversazione Society. Non va dimenticato in tal senso la sua appartenenza al filone degli economisti sottoconsumisti, a cui egli ritiene di fornire infine una rigorosa versione della loro “intuizione”, alla base della quale può ben porsi l’affermazione di Betel-Dumont ( Théorie du luxe,s.l.1771 ) secondo la quale i bisogni naturali portano gli uomini a consumare sempre meno di quanto non siano in grado di produrre ( cfr. C.Borghero, La polemica sul lusso nel settecento francese., Einaudi, Torino, 1974, p.XXXI). Affermazione a cui si può accompagnare quella di Keynes per il quale “ Qualsiasi rimedio possa essere il migliore per risolvere il problema della povertà nell’abbondanza, noi dobbiamo rifiutare tutte quelle soluzioni proposte che consistono, in concreto, nello sbarazzarsi dell’abbondanza. Può essere vero che , per varie ragioni, al crescere dell’abbondanza potenziale si fa più difficile il problema di distribuirne i frutti…” ( J.M. Keynes, Poverty in Plenty: is the Economic System self-Adjusting?”, Collected Works of Keynes, MacMillan – Cambridge University Press,London,1987, vol.XIII, p. 485). Se infatti la vulgata vuole che alla base del Welfare State, pensato in origine da Beveridge e non anche da Keynes, ci sia il paradigma della domanda effettiva, si deve al contrario ricordare che a differenza che nella geometria euclidea dove la retta segna la minor distanza tra due punti, ciò non è vero in economia e segnatamente nella “sintassi” della General Theory. Per il cantabrigese infatti la difesa dell’occupazione non ha autonomia in sé e per sé ma si pone come esito di una relazione analiticamente mediata tra consumi, investimenti e livello del reddito nazionale e quindi da qui ricavare il livello dell’ occupazione. In tal senso egli “fa proprio il punto di vista del suo vecchio amico Henderson:<< Potremo difendere l’occupazione solo a patto di non farne il nostro solo, e nemmeno il nostro principale obiettivo>>”( cfr. A.Minc, Diavolo di un Keynes. La vita di John Maynard Keynes, UTET, Torino, 2008, p.204). E se questa notazione è troppo raffinata dal punto di vista filologico, il punto centrale che milita contro Stiglitz , e altri keynesiani in pallida copia, in materia di globalizzazione e che va fortemente ribadito riguarda l’eclatante pentimento con tanto di autocritica di Keynes nella sua abiura della sua passata ortodossia a favore del free trade. Che d’altronde altro non rappresenta che la coerente estensione in chiave analitica con l’ assunto di “mercato aperto” del clou della sua teoria espressa nel suo magnum opus: il rifiuto radicale del laissez- faire in ipotesi di assenza di scambi con l’estero ( che egli chiama “self-sufficiency”). Il che fa tutt’uno con la rivalutazione presente nella General Theory del mercantilismo e quindi del protezionismo ( book V, chapter 23 : Notes on Mercantilism, the Usury Laws, Stamped Money, and Theories of Under-consumption). Per quanto “buona” e quindi liberata dal “Washington consensus” e dalle vessazioni della burocratica miopia del FMI, la globalizzazione implica l’accettazione della logica di mercato e delle sue presunte virtù autoregolative nel commercio internazionale. E niente è inauditamente tanto antikeynesiano.
Ma neanche la implosione della globalizzazione ha aperto gli occhi a Stiglitz, o almeno è servita a fargli riprendere in mano il testo che fonda la Macroeconomia. Sul supplemento de , del 20 Aprile u.s. in prima pagina Stiglitz firma un articolo il cui titolo sintetizza e prova in modo inequivoco quanto abbiamo appena detto : “Protezionismo il vecchio vizio”. Dove il nostro premio Nobel non manca evidentemente di rampognare i “Paesi sviluppati” ( dimenticando che la globalizzazione ha posto molti di loro sulla via del sottosviluppo) di predicare bene e razzolare male in materia di giuramenti di fedeltà alla dottrina del libero scambio, attuando di contrabbando misure neomercantiliste. E se qui siamo in presenza di un generalizzato flagrante cortocircuito scientifico di tutti gli economisti(ci)- con l’aggravante della rivendicazione di un necessario ritorno a Keynes da parte di Stiglitz in compagnia dell’altro Nobel “keynesiano” Krugman – nell’articolo in parola non manca la ciliegina sulla torta. Che consiste nel richiamo della questione già sollevata da Keynes circa l’esigenza di un sistema mondiale di riserve monetarie, alla luce della manifesta esigenza nell’attuale tsunami mondiale di superare il ruolo del dollaro in tale funzione. Ma professor Stiglitz, Keynes non pensava a tal proposito di conservare tutti i pregi del gold standard in materia di cambi fissi senza la connessa oscilazione (oltre i “punti dell’oro”) tra inflazione e, principalmente deflazione? E la stabilità dei cambi non è la negazione della libera circolazione dei capitali, anche quelli a brevissimo termine di tipo speculativo, oltre che delle merci e quindi della globalizzazione per quanto virtuosamente concepita? E le progettate penalità per paesi con persistenti bilance dei pagamenti sia in attivo che in passivo non sono la più totale prova dell’dea di Keynes di pensare ad un mercato mondiale dove nessuno può attuare la logica del beggar-thy-neighbour ( fregare il tuo vicino, esportandogli la tua potenziale disoccupazione) come vuole in essenza il libero scambio in versione “globalizzazione”? Per non parlare dell’ammirazione taciuta per motivi patriottici da parte di Keynes per i meccanismi di compensazione Shacht-Funk con i partener commerciali del Reich. Non siamo a un di presso di un commercio internazionale che più che alla logica dei mercati si ispira alla “razionalità” di un commercio internazionale programmato subordinatamente all’ottenimento all’interno dei singoli paesi di un PIL quanto più possibile prossimo all’efficienza da piena occupazione delle risorse?
Oseremmo dire che tutto ciò potrebbe prefigurare una “buona” globalizzazione professor Stiglitz, ma non certo la sua, totalmente insensibile e cieca dinanzi a quella “paura delle merci” dei mercantilisti che Keynes riammette all’imprimatur di Cambridge; e che la sua paura del protezionismo, esimio professore, consegna allo sciocchezzaio dei benpensanti falso–esperti. Una volta esclusi dalle cariche accademiche e oggi addirittura insigniti del Nobel. Anche per lei valga l’esigenza simbolica di una “denobelizzazione”, accertato che si sia la sua natura di SNOB ( sine nobelitate).
Vittorangelo Orati

martedì 8 settembre 2009

Economisti(ci) SNOB ( sine “nobelitate”): (2) Robet Lucas jr. e Edmund S. Phelps ( &co.)




Nel 2006 il Nobel per l’economia viene assegnato a Edmund S.Phelps considerato un neokeynesiano ( e quindi un apostata del vero verbo di Keynes secondo i “Post-keynesiani” che si considerano i legittimi eredi del cantabrigese ). I contributi che gli son valsi il riconoscimento da parte della Banca Centrale svedese riguardano la micro fondazione della macroeconomia nei suoi aspetti dinamici . Aspetti assenti nell’originario impianto di quest’ultima. In realtà si tratta dell’ennesimo tentativo di un fallimentare filone che tende a risolvere lo scandalo epistemologico che rende incompatibili gli statuti della Microeconomia e della Macroeconomia standard. La fallimentarietà di tale filone risiedendo nella revoca della rational choice ( scelta razionale) da parte dei soggetti economici che viene postulata in Microeconomia, nel tentativo di renderla compatibile con la mancata razionalità attribuibile all’equilibrio macroeconomico contrassegnato in generale dalla non piena occupazione delle risorse e in particolare dalla presenza di disoccupazione involontaria pur in presenza di impianti e capacità produttiva sottoutilizzati. Insomma il compito che da più parti si cerca di perseguire nel cercare i fondamenti microeconomici della macroeconomia è quello di superare l’ “errore di composizione” riscontrabile a livello macro per il quale il tutto in generale è non solo diverso ma minore della somma delle parti. Che è un modo elegantemente criptico oltre che esoterico per definire l’ “irrazionalità” costituita dallo “scandalo pubblico della miseria nel mezzo dell’abbondanza” che Keynes ha vanamente creduto di risolvere, lasciando inoltre sancito lo iato epistemologico tra gli ottimi equilibri che la scienza economica insegna si stabiliscono in relazione alle singole entità che animano il processo economico e la non ottima risultante di quegli equilibri una volta considerati tra loro aggregati.
Della necessaria fallimentarietà cui sono votati tutti i tentativi che cercano di conciliare la irrazionalità generale degli equilibri macroeconomici revocando il postulato di razionalità che sorregge gli equilibri a livello atomistico parleremo più oltre, Quel che va subito detto riguarda il fatto che il Nobel in economia è stato dato anche a chi come a Robert Lucas jr. allievo dell’altro Nobel Milton Friedman si è mosso in direzione opposta per riscattare la dismal science dallo scandalo epistemologico che riguarda definitoriamente la schizofrenia dei suoi insegnamenti. Questi ha tentato addirittura di risolvere il problema cercando di dare uno statuto razionale all’andamento ciclico dell’economia capitalistica, attribuendo natura “volontaria” alla disoccupazione ciclica spiegata con la ciclicità dell’intervento-intromissione pubblica nell’economia altrimenti retta dalle naturali armonie autoregolantesi dei mercati. A parte i veri e propri trucchi manipolatori, di cui abbiamo dato analitica prova altrove ( V.Orati, Una Teoria della teoria economica,Vol.II, Torino, 1997, P511 e sgg.), Lucas ritiene di poter dimostrare che non v’è scandalo nel prodursi della “miseria nel mezzo dell’abbondanza” se non nel senso di forzare la naturale armonia auterogalativa dei mercati. Infatti i soggetti economici in funzione di lavoratori perfettamente consci dell’ hybris ( limite umanamente invalicabile) di un “saggio naturale di disoccupazione”, prevedendo la fatale inflazione conseguente il delirio d’onnipotenza del volontarismo interventista e in possesso delle nozioni di una teoria economica migliore di quella standard - che assegna loro una razionalità solo adattiva e non anche predittiva - si ritirerebbero parzialmente dal processo produttivo. Ciò configurando gli estremi della “disoccupazione volontaria” determinata dalla loro “superiore” razionalità ( “aspettative razionali”) che logicamente non farebbe accettare di lavorare per un salario reale decurtato dall’inflazione. In attesa di tornare al lavoro quando nella fase del ciclo “teoricamente invariante” ( scoperto da Lucas) della deflazione che fa seguito ciclicamente all’inflazione.Naturalmente vano sarebbe cercare nel “contributo” di Lucas la ratio per cui solo da un certo momento della sua storia il capitalismo ha indotto lo Stato a intervenire con misure anticicliche. Infatti ciò significherebbe ammettere il dato di fatto incontestabile che i cicli e quindi la disoccupazione ciclica sono fenomeni che precedono la parentesi storica dell’interventismo pubblico nell’economia e l’intero edificio del pupillo di Friedman crollerebbe immediatamente. A ben guardare la revoca della razionalità trova il suo posto anche in tale risibile tentativo “scientifico” che la dice lunga sullo stato comatoso della “scienza economica”: è lo stesso Lucas a rinunciarvi con la sua teoria. E l’ensamble dei premi Nobel che cooptando i nuovi si decidano circa l’alternativa che si para tra l’iperazioinalità lucasiana jr. ( per non confonderlo con il filosofo Georgy Lukacs) o la perduta razionalità dernier cri ( anche nel senso di ultimo grido di disperazione da parte degli economisti(ci) ) dei molti altri Nobel condivisi con Phelps a tal riguardo. Non potendosi dare un tale riconoscimento a chi con approcci diametralmente opposti e inconciliabili tenta di risolvere uno dei vulnus principali che fanno della economics una collezione di opinioni ( dallo strampalato al risibile) piuttosto che un corpus teoricamente consistente a livello logico e metodologico. Che la comunità degli economisti(ci) non abbia avuto ripensamenti dopo essersi accorta di aver premiato con il Nobel sia il “diavolo che il buon Dio” appare conclamato in funzione del fatto che nel 2003 Robert Lucas , ben otto anni dopo il suo Nobel e i molti Nobel vinti da chi ha percorso la strada della deminutio della razionalità standard dei soggetti economici, è stato nominato Presidente Dell’American Economic Association.
Se a proposito dell’allievo di Friedman bastano poche battute per rendersi conto della più totale incostanza scientifica della sua teoria che ha dato smalto alle super “ aspettative razionali”, più spazio e argomentazione occorre per giustificare il giudizio di fallimentarietà che abbiamo anticipato a proposito dell’approccio di Phepls ( e di altri che ne condividono l’impostazione) che si muove nel solco precedentemente accennato. Con cui si è tentato e si tenta ancora di far si che la revoca della rational choice ai soggetti della Microeconomia sommandosi alla irrazionalità delle performance generali dei sistemi economici della Macroeconomia conferisca un sano e infine raggiunto status di “razionalità” scientifica alla intera “scienza economica”. Tentativo con cui si intenderebbe rendere compatibili gli equilibri non ottimizzanti delle sue parti con l’equilibrio “irrazionale” del tutto inteso come somma di quelle.
L’occasione per parlare di Phelps ce la fornisce - vera e continua fonte di ispirazione come passerella ineguagliata di ecomisti(ci) di “grido” ( da far paura!) - del 17 Aprile u.s. Con un articolo in tutta evidenza del suddetto dal titolo “Non c’è capitalismo senza incertezza”. Dove si sciorinano una serie di rituali giaculatorie contro socialismo e corporativismo , come si fa da ogni dove onde scongiurarne l’impellenza oggettiva imposta in realtà dal clamoroso ennesimo fallimento del capitalismo in versione di globalizzazione, riproponendo i sermoni moralistici sugli eccessi del laissez faire e le virtù di un capitalismo dove, di contro, si valuti l’esistenza dell’incertezza e del rischio. Virtù dimenticate e che per questo secondo Phelps si sarebbe verificata la crisi in atto , naturalmente e del tutto superficialmente diagnosticata come crisi finanziaria. A chi non fosse addentro i meandri dell’imponente e bancarottiero patrimonio teorico della “scienza economica” dobbiamo premettere che l’ “incertezza” di cui parla Phelps non è quella che riguarda l’intera condizione umana e che è uno dei temi della philosophia perennis, ma la così detta “incertezza di Knight” che evidentemente riguarda il fatto che in una economia dinamica dove la dinamica è affidata all’innovazione per definizione non v’è esperienza passata che permetta di prefigurare gli esiti dell’innovazione stessa.
Ma ciò posto e acclarato vediamo cosa ne può discendere da tale incertezza che Phelps &co. hanno tradotto in una revisione al ribasso della razionalità dei soggetti economici assunta a base del paradigma neoclassico standard. Consistendo la deminutio di razionalità in argomento a seconda dei vari sub -filoni in “informazione incompleta”,” asimmetria informativa”, “razionalità limitata” et hoc genus omne. Ebbene dal punto di vista dell’arricchimento gnoseologico e dell’atteso risarcimento scientifico della economics non è successo proprio niente, rimanendo del tutto chimerica l’attesa saldatura tra Macroeconomia e Microeconomia attraverso i molti , e con Nobel impalmati, tentativi di dare “fondamento microeconomico alla macroeconomia”.
Siamo costretti a rimandare ai nostri più paludati lavori per una adeguata esposizione della intera questione. Qui possiamo solo accennare ai pilastri logico-metodologici della nostra posizione radicalmente critica. Come c’era da attendersi due irrazionalità sommate non danno luogo a una rivista e soddisfacente “razionalità”. Se gli economisti(ci) avessero più frequentazione con la logica matematica avrebbero appreso che la legge di Duns Scoto annunciava il fallimento di cui stiamo parlando. “Ex falso sequitur quod libet”, così suona la predetta legge che dimostra come da premesse false ( non “vere” in quanto non “razionali”che nel nostro caso significa fuori dagli equilibri massimizzanti sia in campo micro che macroeconomico) si può dimostrare tutto e il suo contrario. Siamo cioè fuori dal rigore logico sotteso alla scienza. Inoltre in aggiunta alla rinuncia alla predetta razionalità, la “falsa” premessa da cui partono tutti i tentativi di dare fondamenti microeconomici alla Macroeconomia è quella che considerare fondate le basi della General Theory in merito al fatto che Keynes lì ritiene che crisi e ciclo non siano, come in realtà sono, una necessità del capitalismo in versione laissez faire. Infatti nella sua denuncia dello “scandalo pubblico della miseria nel mezzo dell’abbondanza” non vi è il minimo sospetto che la crisi e quindi il ciclo traducano la ratio capitalistica attraverso cui in presenza di laissez faire essi sono l’unico modo di metabolizzare le innovazioni e quindi il motore dell’accumulazione stessa del capitale. Se Phelps, come d’altronde l’intera “professione” degli economisti(ci), non citasse lo Schumpeter manieristico da barzelletta (come fa nell’articolo in oggetto ) ma ne avesse colto la sfida intellettuale, che dinanzi alla fandonia epistemologica dell’incertezza keynesiana ebbe ad affermare che la vera e autentica spiegazione dell’andamento ciclico dell’economia va cercata ferma rimanendo l’ipotesi della razionalità dei soggetti economici rappresentando la crisi una contraddizione necessaria del capitalismo, avrebbe dato un minimo di credibilità alla sua fama di studioso. Schumpeter aveva letto abbastanza da Marx per farsi ispirare da questi la più grande e rilevante parte del suo “progetto di ricerca”. Vorremmo sapere da quale cilindro Phelps abbia tirato fuori questa citazione sconcertante: “ l’incertezza rende l’economia soggetta a variazioni improvvise- tutti fenomeni osservati da Marx nel 1848..” Altro che incertezza e imprevedibilità, Marx ha dal suo canto capito che il clou della crisi è nella contraddizione storicamente definitoria tra produzione sociale e distribuzione privata dei frutti del lavoro; e si è a fondo interrogato sulla ciclicità con cui tale contraddizione si manifesta con le crisi di sovrapproduzione generale . Arcano di cui Phelps non da alcuna mostra di essere cosciente , come del fatto che Schumpeter ha tentato di dare una spiegazione della “regolarità irregolare” con cui si manifestano le crisi cicliche. Fenomeno questo che solo degli sprovveduti possono ritenere appartenere ad una “irrazionalità” ciclica dei soggetti economici. Insomma siamo nuovamente autorizzati a sentenziare di esserci imbattuti in altri casi di economisti(ci) da “degradare” agognando di una iniziativa che faccia restituire loro il blasone del Nobel, risultando essi irrimediabilmente SNOB, ovvero sine nobelitate ( senza qualità da Nobel). Per le modalità di un tale “cerimonia” rimando a quanto ho avuto modo di suggerire in un precedente articolo.
Vittorangelo Orati

Chi ci salverà dagli economisti (ci)?


Uno dei pochi giudizi compiuti esternati dal ministro Tremonti, anche se sempre a livello di sussurro quando non in sogghigni o esclamazioni che esprimono la sua completa e giustificata sfiducia verso tale corporazione di “esperti” ( post festum!) di professione, riguarda gli economisti. Verso i quali il predetto ministro apprezza poco o punto la relativa “sapienza” e sottostante “scienza”. Chi ha la bontà di leggerci attraverso la stampa periodica, se non attraverso la nostra produzione libraria, sa come e quanto andiamo fortemente e da tempo sostenendo e argomentando circa una tale posizione, sfociata nella definizione di economisti(ci) attribuita agli economisti grazie a ciò che essi hanno fatto della “scienza economica”: una sorta di metafisica opportunamente modernizzata attraverso il ricorso massiccio a strumenti matematici. Strumenti che anche chi ha un po’ di frequentazione coi cardini della epistemologia sa che non vanno oltre la pur indubbia qualità di vivisezionare - seppure potenzialmente ad infinitum - il già noto, appartenendo la loro natura conoscitiva o gnoseologica ai kantiani “giudizi analitici”. Naturalmente non è che all’interno della disciplina non si abbiano diverse correnti di pensiero che vanno dall’estrema e sin qui vincente opzione armonicistico-contemplativa a quella antiarmonicista-interventista. Dove la prima facente capo alla sempreverde fede nei meccanismi autoregolativi del mercato capitalistico (neoclassici, neo-neoclassici, anarcocapitalismo etc.) e quindi escludendo ogni intervento sul suo proprio oggetto rappresenta perciò e addirittura un autentico scandalo epistemologico, finendo per assumere i contorni di una superstizione prescientifica. Ma nell’altra ( keynesiani di ogni ordine e grado), che almeno si pacifica con le cifre volontaristiche (non solo favorevoli all’intervento sul proprio oggetto di studio ma mosse dall’obiettivo di una sua manipolazione ai fini del miglioramento della condizione umana) tipiche della scienza moderna , il livello mistico o fideistico si mostra nel suo scivolare da una posizione di apologia diretta del capitalismo tipico della prima opzione dottrinale e quindi della ipostasi della storia a quello della apologia indiretta di un tale modo di produzione: ci sono difetti nel “sistema” ma possono essere corretti ! Così rilanciando in modo non scopertamente anacronistico l’ingenua apologia “antivolontaristica” dell’altra corrente di pensiero, convergendo con questa nel giudizio per cui, con locuzione leibniziana, il presente e quindi il capitalismo sarebbe “il migliore dei mondi possibili”. Dunque una fede rattoppata o riagghindata quanto basta : “un Dio minore” cui dare una mano, ovvero una passaggio dal provvidenzialismo settecentesco “fisiocratico -smithiano” ancorato al concetto di “ordre naturel” a una più impegnativa teodicea passata attraverso il setaccio dell“etica protestante” calvinista ( Max Weber). All’appello mancano solo i sedicenti “eterodossi “invero null’altro che artefici di improbabilissime operazioni di sincretismo di stampo new age ( Wicksell + Schumpter+ Keynes+ Marx,+Sraffa ,etc.). Che, trattandosi anche in questo caso di fenomenio sostanzialmente religioso ( non avendo alcuna fondata base scientifica) dovrebbe far parlare di “bestemmie” piuttosto che di intrecci di paradigmi tra loro irriducibili. C’è poi la sparuta pattuglia dei marxisti “ duri e puri”. Quelli, che magari senza saperlo, condividono il dogmatismo bordighiano che tratta il lascito intellettuale di Marx come Bibbia inemendabile e definitiva. Ma questa realtà rievoca tanto stringentemente quella di Monte Athos o, dove vi sia una qualche aggregazione, “il buzzattiano “Deserto dei tartari” da assumere addirittura i contorni del fanatismo fondamentalista, e quindi la sua iscrizione di diritto nella super-religiosa fede nel crollo inevitabile del capitalismo per la “caduta tendenziale del saggio del profitto”. O altra e equivalente scivolata ricardiana da parte del trevigiano. Dunque non si ha altra scelta nel mondo degli studiosi ufficiali di problemi economici che distinguere tra diversi livelli di alienazione “religiosa”. Ma non è certo la “ragione” epistemologica o altra e diversa teoresi scientifica quella che ispira l’avversione verso gli economisti da parte del superministro dell’economia Tremonti. Né a confortarci può valere l’idea di una sua elaborazione in fieri alternativa a quella akkademica ufficiale, alla luce dei suoi parti pubblicistici. Dove il clou del “messaggio” è una via di mezzo tra una qualche nostalgia di un tramontato mondo alpinpadano ( o se si vuole cisalpino) e il suggerimento per una impossibile metabolizzazione della globalizzazione a piccole dosi , ovvero di una resa alla sua ineluttabilità che si sarebbe dovuta però attuare con ritmi meno travolgenti. Insomma una particolare declinazione dell’eccessivismo”. “Partito oggettivamente rilevabile quello “eccessivista”, assolutamente trasversale tra gli economisti(ci) di ogni orientamento canonizzato che sono ben lungi dal sospettarne la possibile individuazione. Eccessivismo che ha nella mistica della “moderazione “, di ciò che moderato non può essere per definizione, la sua cifra “religiosa”. Cifra che equivale ad aver fede in una superstizione quale quella dell’illusione di poter imporre al capitalismo dispiegato di essere “misurato” , nel mentre è proprio negli eccessi e nelle sue “dismisure” quali-quantitative che trova la sua ragion d’essere il profitto e la connessa accumulazione del capitale. Cosi stando le cose , chi ci salverà nell’attuale peste economica dagli economisti(ci) e dai loro non meno, ancorché ignari, mistici critici che oggi in Italia hanno il compito di attuare ( per dirla con Keynes) il “punto di vista del Tesoro”? Vittorangelo Orati

Dalla (dé)rive gauche al naufragio: la rotta “sinistra “degli economisti” della sinistra radicale


Nella mia ormai lunga esperienza di frequentazione sia come studente che come (intruso) docente nel mondo universitario ho tratto alcune lezioni sul rapporto che intercorre tra la personalità complessiva dei “professori” ( coerenza ai valori di vita manifestati, rapporto con gli altri, atteggiamenti ex e extra cattedra ecc.) e il loro valore scientifico. La prima e la più rilevante che sento l’esigenza in questa occasione di esternare per quei sparuti studenti in cerca ( pour cause) di ancor più sparuti “maestri” è che la coerenza tra grandi ideali di rilevanza sociale e spessore scientifico è strettissima e direi anzi indispensabile tenendosi le due cose l’un l’altra. Dunque, se in luogo della suddetta sinergia ci si imbatte in una schizofrenica divergenza tra cipiglio, posa, “maschera” di grande scienziato e opportunismo politico, dedizione “parcellare” alla “professione” ( dove in sottofondo si sente un costante frusciare di banconote), servilismo o conformismo verso il potere costituito in tutte le sue manifestazioni, nonostante una qualche eventuale riconosciuta “fama” ( ben diversa dalla “considerazione” secondo Condorcet che scrisse un saggio sul rapporto tra intellettuali e potenti, potendosi la prima acquistare nella “società dello spettacolo” con una opportuna politica dell’ “immagine”), si può stare certi che ci si trova dinanzi a una ben riuscita simulazione carrieristica attualizzata di quella “ tragica macchietta” che già molti anni fa Salvemini ebbe magistralmente a descrivere come “ Cocò all’Università di Napoli o la scuola della malavita ” ( , n. 3 gennaio 1909) e che vede il Cocò salveminiano partorito dall’università partenopea ai primi del secolo XX estendersi a livello nazionale e all’università rimanervi approfessorandosi rendendo pandemico il suo virale genoma. Un consiglio sintetico per chi voglia istruzioni per l’uso: saper distinguere tra chi fa e chi invece è “professore”. Senza nessuna concessione alla facile popolarità che un atteggiamento demagogico verso gli studenti può facilmente provocare, sapendo il vero scienziato quanto arduo e limitato a pochi sia l’accesso alla conquista e agli strumenti e al loro uso per aspirare alla scoperta di nuovi “paradigmi”, sarà tipico per lui il far trasparire la passione che anima la sua “research” e l’entusiasmo “erotico” ( la autentica lectio non è altro che un brainstrip alimentato dalla incessante tensione e eccitazione provocate dal fatto che il vero scienziato piuttosto che inseguire la verità è da questo inseguito ) verso il proprio oggetto di studi durante le sue lezioni , mai comandate da ritmi di algida esposizione e da criteri temporali burocraticamente convenzionali ( il quarto d’ora accademico rubato dai sedicenti professori). Naturalmente nel caso di settori disciplinari dove è inevitabile evidenziare la propria collocazione di “classe”, come nelle discipline economico-sociali e umanistiche, persino trincerandosi dietro la favola della “neutralità della scienza” ovvero dietro l’assurda pretesa del carattere non “ideologico” del proprio “sapere” ( che evidentemente rivela la sua impossibilità logica costituendo un tale “punto di vista” per l’ appunto un “punto di vista” e quindi una presa di posizione ideologica e logicamente contraddittoria) i “professori sono particolarmente esposti ai criteri di valutazione di cui si discute. Ma come il “ caso Galileo” e il più vicino “caso Oppheneimer” per non parlare dello scoppio della “bioetica” hanno dimostrato, persino nel caso dell’astronomia, della fisica e della biologia è praticamente una chimera da analfabeti assumere il “punto di vista di Sirio”.
Evidentemente fa il paio con la coerenza di cui si è appena detto la “lezione” che ho imparato circa i prezzi da pagare per l’appartenenza a quella sorta di “Jurassic park” che professa la visione delle cose esposta. Che comporta , tra l’altro,la costante denuncia dei “ mercanti nel Tempio” .
Così la cronaca politica mi impone una sorta di “prova di laboratorio” a seguito di quanto appena detto alla luce di quello che in punto di teoria economica ho stigmatizzato tempo addietro in un articolo apparso sia su ( n.3, marzo, 2008) che su ( n.1-2, gennaio-febbraio, 2008) dal titolo “ “ La (dé)rive gauche”. Lì mostravo tutta la incomprensione da parte di un gruppo di economisti appartenenti alla sedicente“sinistra alternativa” - riuniti a convegno a Roma il 9 ottobre 2007 per presentare la propria posizione su neoliberismo, precarizzazione del lavoro, Mezzogiorno, ecc. , in veste di “cattiva coscienza del moribondo ultimo “governo Prodi”- della assoluta infondatezza scientifica della loro posizione dottrinale che pretende di coniugare insieme Marx e Keynes. Facendo di fatto propria la “Bolla” dei fondamentalisti del mercato neo-classici per i quali lo statalismo keynesiano è “comunismo” , come comunisti sarebbero i keynesiani. Naturalmente la cultura da “bancarella” che è alla base della predetta identità Keynes-Marx non è solo di quanti l’hanno formulata come accusa nei confronti dei supporter dell’intervento dello Stato nell’economia ,nell’ipostasi del quadro capitalistico, ma anche, se non di più, di quelli verso cui tale accusa è diretta che accettano e danno per buona questa inammissibile licenza del tutto impoetica. “Bolla” quella degli armonicisti antikeynesiani che anzi costituisce alibi (della consistenza della foglia di fico) con cui nascondere ai più – trascurando il peso irrilevante dei pochissimi ( da qualche parte spero ci sia qualcun altro ) politicamente orfani studiosi che sanno come stanno realmente le cose – la bestemmia concettuale di spacciare per marxista l’economista cantabrigese che intanto sentì l’esigenza politica di elaborare la sua “General Theory” in quanto sentì l’urgenza di salvare il capitalismo dei “ pauci sed electi” dal ciclico “scandalo pubblico della miseria nel mezzo dell’abbondanza” dinanzi al montante pericolo rappresentato dalla nascita dell’URSS e al successo dei suoi piani quinquennali nel panorama dell’immane flagello della “Grande Depressione”.
Ebbene, il mio articolo sulla (dé)rive gauche si concludeva segnalando, come sintomo di tanta approssimazione e/o incultura nonché latente opportunismo, la presenza, con relativo “ contributo” , nel summit dei marx-keynesiani- inconsistenti oppositori degli economisti (ci) neoclassici - del pericolo pubblico rappresentato dal professor Marcello Messori . Non solo corifeo elaboratore e difensore del bidone del pacchetto “TFR / fondo pensioni “da assegnare al comitato dei parassiti sindacali e padronali, ma anche presidente del comitato d’affari che riunisce le società che gestiscono i fondi comuni di investimento Assogestioni. Parassiti del cui costo un recente fondo dell’esperto del quotidiano di Confindustria non tiene conto ( pour cause evidentemente) pur denunciando i maggiori costi dei “fondi di investimento” italiani rispetto a quelli degli altri paesi. Fondi di investimento che comunque vadano le cose nel casinò della Borsa si pagano le loro laute commissioni prima di rimborsare i loro clienti. Quando il Messori vinse la cattedra si disse che si era trattato di una tornata che aveva cooptato i “ giovani rossi”. In realtà il diario della crisi globale in atto dovrebbe far diventare rossi ma dalla vergogna quelli che si macchiarono di tale equivoco. Ma non a caso abbiamo parlato di una “evoluzione” del Cocò salveminiano da prodotto dell’università a prodotto per l’università. Basti pensare, nel nostro caso, al liquefarsi dell’”altra gamba”, quella privata, dei potenziali pensionandi in un quadro come l’attuale, dove più che zoppia per il venir meno dell’” altra gamba privata” ( detta anche pomposamente “secondo pilastro pensionistico”) il default del sistema finanziario mondiale provocherebbe a i lavoratori in età di pensione un quadro disperante in assenza di una previdenza per la vecchiaia totalmente pubblica.
Animatore del convegno “rosso” del 9 ottobre del 2007 fu, come narrano le cronache del “quotidiano comunista del 7 e 10 0ttobre 2007, Riccardo Realfonzo economista di “punta” dell’ateneo del Sannio, rampollo dell’inneffabile Augusto Graziani vero pilastro dello scientificamente indigeribile mix wicksell-schumpeter-keynesian- circuitismo- sraffian – comunismo alla cui fonte si son nutriti i gli “economisti (ci) della cattedra” della generazione dei vari Messori . Ora anche per il Realfonzo pare sia venuta l’ora dell’expertise “cocòiana” che Salvemini ha per così dire rilasciato “a futura memoria”. Il corrispondente da Napoli de ci aggiorna sulla “nuova” giunta della “pasionaria” partenopea Rosa Russo Iervolino ( nome di battaglia, Rosetta) - sin qui complice degli “sfrantummati” assessori da lei nominati e ora indagati - dicendoci che l’economista sannita ha accettato il posto di assessore al Bilancio del Comune di Napoli di “terza mano”, dopo il rifiuto di altri due candidati. ( almeno Lucio Colletti ebbe in cambio un posto al parlamento nazionale per la sua abiura). La speranza è che non sia la natura a ribellarsi dinanzi a esempi di svendita da mercato di “pezze” usate americane di Resina. Anche se forse solo un conato di “rosso lava” ( che costituirebbe invero un salutare lava-rosso)del Vesuvio potrebbe, come estremo rimedio a mali estremi , porre fine all’ immondizia che da rifiuto dell’umana presenza e attività pare sia diventata materia prima del “modo di produzione napoletano” a tutti i livelli di rosso ammantati ( Provincia e Regione di king Bassolino o meglio “Boss-olino) e non solo quello di Rosa-shoking . Il titolo completo del mio articolo sulla (dé)rive gauche accennava a una “sinistra” ( in senso lombrosiano) deriva del pensiero. A distanza di tempo la conferma anche della deriva della realtà oltre che del pensiero, unica coerenza paradossale che sa di “filosofia della prassi”( rapporto “dialettico” tra pensiero e azione) come gramscianamente è stato anche definito il “materialismo storico” ovvero il “socialismo scientifico”di Marx ,di cui si impossessano del tutto antiscientificamente “sinistri tenutari ” di cattedre di economia politica.
Vittorangelo Orati

domenica 6 settembre 2009

Economisti(ci) SNOB ( sine “nobelitate”): (1) Il caso di Merton e Sholes




Intendiamo dedicarci , in più “sessioni”, a commentare alcune “perle” scientifiche in materia di economia immortalate con l’attribuzione del relativo premio Nobel. Una tale intenzione si inquadra nella missione che ci siamo assunti di far comprendere a un più vasto pubblico di quello che segue o dovrebbe seguire la letteratura specializzata le immani lacune e la conseguente fallimentarietà della “scienza economica” accreditata, e quindi la profonda esigenza di rifondarla in modo radicale. Ciò al fine di non assistere più all’ormai insopportabile scandalo della “miseria nell’abbondanza” cui continua a condannarci un decrepito capitalismo e una fallimentare economics, che ancora non ne ha compreso la causa e che quindi è lontana da poterne suggerire cure e rimedi.
Iniziamo dai pestiferi “inventori” della così detta e fino a ieri celebrata “finanza creativa”, che ha fatto da detonatore e amplificatore della immancabile crisi ciclica di sovrapproduzione capitalistica. Inventori a cui per anni sono stati concessi tutti gli onori dell’accademia insieme a straordinarie prebende. Pensiamo evidentemente ai due premi Nobel assegnati nel 1997 a Robert C. Merton e Myron S. Sholes. Sono due casi estremi di una più generale esigenza per la quale si dovrebbe pensare a una sorta di punizione riparatrice: revoca del Nobel e restituzione almeno del suo ingente ammontare da destinare a scopi effettivamente sociali. E sarebbe il meno per quanto riguarda l’aspetto economico se si guarda alle bibliche conseguenze negative della loro “scoperta”: il ”teorema di Merton” e la “formula di Sholes” applicata ai mercati delle opzioni come sottospecie dei mercati derivati. Il teorema in questione, che appropriatamente Bernard Maris ha ribattezzato come “teorema d’eccitazione” dandone una efficace sintesi, può così rendersi: più un mercato è rischioso , più uno speculatore è eccitato ad assumere rischi , eccitando a sua volta il mercato, e così via . Concatenazione diabolica questa che conduce alla tesi per cui “il prezzo di una opzione è una funzione crescente del rischio. Ne discende che se si è in grado di alimentare una costante “eccitazione” intorno a una opzione( alimentandone la domanda), il rischio di variazioni al ribasso sono oscurate, specie in presenza della facile finanziabilità del livello di eccitazione dovuto all’ “effetto leva” che permette che si scommetta su qualsiasi titolo presente in Borsa senza possederlo, non più di quanto si possegga una partita di calcio o il set di numeri da estrarre allorché si scommette rispettivamente al totocalcio o al gioco del lotto (una indulgente politica lassista da parte delle Banche Centrali facilita e lubrifica ulteriormente siffatto proscenio). Lungi dal fermarsi al semplice livello enunciativo i due personaggi in questione si son dati da fare mettendosi in società con tale John Meriwether e tale David Mullins, rispettivamente un ex broker di Salomon Brothers e un ex vicepresidente della FED, fondando la famigerata LTCM ( Long Term Capital Management) miseramente poi fallita trascinando con sé un imponente serie di istituti bancari, arrivando all’epoca a raggiungere un giro di affari di 1250 miliardi di dollari nettamente superiore al coevo PIL italiano di allora e dello stesso dato riferito al 2002 ( 1184mld$).Quindi Merton e Sholes si sono messi a vendere una formula dove si guadagnava a misura di un rischio crescente . Formula con alla base un presupposto teorico che tutto il neoliberismo ha fatto suo come grido di battaglia: “mercati efficienti”, nel senso neoclassico rilanciato dall ’altro Nobel , Gerard Debreu dove, con il concetto di “beni contingenti”, quest’ultimo suppone informazione perfetta e quindi con assenza di alea “irriducibile”, ovvero assenza di un’alea sistemica incalcolabile perché imprevedibile. In definitiva, affidandosi a cotanti professori si è creduto di affidarsi agli scopritori in economia dell’equivalente formula dell’eterna giovinezza in biologia. Ma nessuno che si sia soffermato a pensare che in Borsa vige la logica dei giochi a “somma zero” . Se la faccenda non riguarda i gonzi che da sempre cadono nell’illusione degli esperti dispensatori di fortuna di turno, è grave per l’insieme dei premi Nobel che rappresentano un meccanismo di cooptazione essenziale nella procedura di assegnazione di un tale riconoscimento. Ebbene, se il rischio è annullabile per magiche conoscenze circa il futuro, la stessa Borsa non ha alcun senso se non in termini di sfruttamento dell’ignoranza altrui. La qualcosa contrasta però con l’impianto neoclassico che non vuole e non può dualizzare il mondo dei soggetti economici distinguendo i perfettamente informati da quelli che non lo sono. Si tratterebbe di un filosofia sociale e economica che tradirebbe l’impianto dell’ individualismo e di quello specifico per la economics dell“individualismo metodologico” che non può che “idealtipizzare” ( tipizzare un modello ideale) un soggetto universalmente definito, nel caso con l’attitudine a compiere rational choice ( scelte razionali). Individalismo metodologico rispetto al quale non v’è sorta di pentimento alcuno, risultando anzi riproposto recentemente con vigore dal metodo dell’” agente rappresentativo”. Metodo sulle cui difficoltà analitiche a comprendere come si dia disoccupazione involontaria e magazzini stracolmi di merci invendute è inutile parlare. D’altro canto non si può neanche pensare neoclassicamente a un mercato dell’incertezza quale è per definizione la Borsa ( Keynes). Perché incertezza e mercati efficienti , ove tutto è selfadjusting in modo armonioso, sono logicamente incompatibili, così come sono impensabili mercati della scommessa dove sono tutti vincitori e nessuno perde.
Sui campi di battaglia e seguito di sentenze di tribunali militari e anche per i sacerdoti è prevista la degradazione. Anche per i nobili che si macchiavano di fellonia era prevista la revoca del blasone e quindi della nobiltà. Sarebbe adeguato e consono ai progressi e allo stesso spirito della scienza mettersi almeno in linea con il mondo della guerra e della fede inaugurando l’ istituzione che preveda la “denobelizzazione” ( ci si passi l’eufemismo) di quanti si mostrino indegni del massimo dei riconoscimenti scientifici, il premio Nobel. Dovrebbe bastare il reato di propaganda infondata della mistica dei mercati autoregolantesi armonicamente. Comprendiamo che non vi sono tribunali e giudici che non dovessero a loro volta autodenunciarsi. Ci si dovrebbe almeno accontentare di procedere contro quelli che non contenti del ruolo di suggeritori e mandanti degli omicidi bianchi della logica di mercato facciano essi stessi mercato della loro mistica. Insomma accanto al reato “morale” e scientifico in cui incorrono gli economisti(ci) si porrebbe il reato di “economistica aggravata”. E se anche per una tale fattispecie sarebbe impossibile celebrare processi, almeno per i premiati con il Nobel, visto l’alto valore simbolico del fatto, si dovrebbe poter istituire un processo di restituzione del titolo a motivo della colpa, in acronimo, di “SNOB” ovvero “sine nobelitate”, cioè assenza di qualità da Nobel. Per il tribunale dovrebbe a questo punto bastare una giuria popolare formata da dissocupati involontari dovendosi escludere quella della pandemica presenza degli economisti(ci) che finirebbero con l’approccio dell’ “agente rappresentativo” per assolvere l’imputato che li incarna accademicamente. Mi propongo come uno dei ( pochissimi) giudici istruttori.
Vittorangelo Orati

Cala il sipario sul tempio (teatrino) di Harvard: la crisi e il momento della verità sulle responsabilità degli economisti(ci)?




Confesso che per la sua illeggibilità “estetica” (trovare un articolo in un autentico festival della controproducente, secondo me, pubblicità è più questione di masochismo che non di motivato interesse) oramai cestino costantemente (che paradossalmente è l’acronimo di“Intelligence in lifestyle”), ovvero il “magazine” del sabato. Specie adesso, in quanto la nuova direzione di “Benjamin” non fa sperare alcun miglioramento se non temere una intrusione pesante dello stesso personaggio nella impostazione de il “Domenicale” del giornale confindustriale. Che, a parte il fatto di rimanere chiuso agli autentici outsider della cultura imperante, è tra le cose migliori da tenere d’occhio per vedere cosa bolle in pentola alla industria culturale “ufficiale” e quella solo apparentemente non tale e in odore di qualche eterodossia, ma in realtà nella prima e per la prima “embedded”.
Ma per il supplemento al rosa quotidiano di viale Dell’Astronomia di sabato 16 maggio u.s., ho fatto una eccezione, solo perché guidato da una comunicazione dell’ANDU (Associazione Nazionale Docenti Universitari) che meritoriamente segnalava un articolo ai “colleghi economisti”. Ciò, nella speranza del tutto infondata, aggiungo io, che questi inizino un processo di autocritica profonda alla luce dei disastri cui ha condotto la loro “triste scienza”. La divisione sciagurata del sapere akkademico infatti non fa sospettare al di fuori dei suoi confini che la vecchia e gloriosa Political Economy (Economia Politica)è ormai ridotta alla risibile economics . Preda esclusiva degli “economistici” da cui non ci si può aspettare alcuno scrupolo di coscienza , vista l’assenza completa della materia prima: la coscienza giustappunto. Di ciò abbiamo dato puntuale misura a proposito dei tentativi di un necessario lavacro da parte di una “professione” che fino a ieri prima del disastro globale non mancava di sottolineare ogni giorno la giustezza dei propri dogmi circa le insuperabili virtù del mercato e dei suoi connessi meccanismi autoregolativi in presenza di una crescita ininterrotta e per tutti.
Dunque a p.137 del su citato magazine era dato ritrovare un ampio servizio (3 pagine a netto di pubblicità) che principiava con il titolo “ 2009: fuga da Harvard”, con relativo occhiello “Lezioni di economia: confessioni al veleno di uno specializzato Mba”, il tutto accompagnato da un ricco sommario: “ Crisi, fallimenti e bolle varie hanno appannato la fama dei master in business administration, i corsi post-laurea che aprivano le porte della finanza e del successo: più che una fucina di supermanager, la culla del disastro?”. Ebbene, un tale Phillip Delves ex allievo della Harvard Business School , dispensatrice dell’ormai esecrato Mba (Master in Business Administration) si sfoga verso la sua Alma Mater, sino al punto di iniziare la sua denuncia evocando “ il terrore” dei giacobini : “ Se Robespierre risorgesse dall’inferno e volesse mettersi a cercare materiale da ghigliottina, potrebbe cominciare da tutti quelli che sfoggiano accanto al loro nome quelle tre iniziali incriminanti: Mba”. Cifre che la rabbia dell’articolista trasforma in acronimo di Mediocre But Arrogant (Mediocre e però arrogante) , MightyBig Attitude (Mi credo chi sa chi), Me Before Anyone (Io prima di ogni altro) e Management By Accident (Manager per caso) alla luce del botto con pernacchia che ha oggettivamente sanzionato il fallimento di tanta presunta “scienza “. La quale ha visto gli Harvard boys in prima fila alla guida delle principali aziende finanziarie e non , le cui malefatte hanno amplificato l’ “ eterno ritorno” delle crisi cicliche che ogni tanto gli economisti(ci) si illudono di aver definitivamente sconfitto, vendendosi come autentici scienziati (oltre che nella misticheggiante cultura indù in India, solo tra gli economisti(ci)è invalso l’uso di individuare gli eletti tra loro come “guru”).
Delves non si ferma a elencare i reprobi con Mba, ma va oltre svelando la mediocrità se non il pattume dei contenuti dei relativi corsi harvardiani , documentandone la assenza di “sguardo critico” e la prevalente motivazione dei suoi studenti a copiare e uniformarsi a ciò che fanno gli altri. E a conferma di quanto abbiamo detto a proposito della esigenza di sloggiare gli economisti(ci ) facendo appello alla logica dello spirito proprio a un “comitato di salute pubblica” (fatta salva la ghigliottina, magari sostituita da un cappello da asino) in quanto vano sarebbe sperare “ parole di contrizione” da parte della corporazione, il pentito harvardiano ci racconta un episodio a dir poco agghiacciante in termini di “faccia tosta”. Mentre nell’ottobre 2008 si consumava il crollo a Wall Street e Washington prendeva atto del precipizio in cui era caduto il sistema economico statunitense , il Dean (Preside) della Harvard Business School (Jay Light) ne festeggiava il secolo di esistenza a Boston, denunciando in tale occasione la dimostratasi mancanza di leadership ai vari livelli operativi della finanza e lasciando ad altri l’accertamento delle responsabilità, non senza però al contempo candidare nuovamente la “Scuola” e i suoi adepti ad “ essere coinvolti fattivamente per la soluzione del problema”. Che è un po’ come invocare di incaricare delle indagini su tutti i serial killer d’America tutti gli allievi di Hannibal Lecter (l’antropofago interpretato da Anthony Hopkins nel film “ Il silenzio degli innocenti”).
Delves evidenzia inoltre come il famigerato Mba costi 70.000$ per un biennio di studi, ma che nonostante le promesse di sfornare manager di ineguagliabile livello non se ne trovi neanche uno di essi tra quelli che hanno segnato la storia imprenditoriale statunitense degli ultimi anni. Ne fornisce un dettagliato elenco che è tanto sorprendente quanto quello dei massimi responsabili delle malefatte finanziarie che hanno amplificato la crisi attuale, puntualmente “formati” nell’ormai protestato tempio della Cambridge a stelle e strisce.
C’è ampia materia per farmi suggerire alternative interpretazioni dell’acronimo Mba: “Maleodoranti bancarottieri akkademici”, “Mortali benefici assicurati”, “Millantatori benemeriti e analfabeti”, “Molti benestanti affossati”, e chi più ne ha più ne metta. Ma anche per richiamare ad essere coerente dopo aver pubblicato l’articolo per sommi capi qui sintetizzato. Che tale articolo gli valga per liberarsi della collaborazione di Alesina che sulla sua harvardianità dispensa puntualmente banalità e falsità a iosa dalle pagine del famoso quotidiano economico italiano. Se ad Harvard mancano studenti e il professor Alesina è costretto forse a compensare il minor salario americano ( per la flessibilità?) con le sue collaborazioni su quest’ultimo foglio la smetta però di beatificare la “flessibilità” del lavoro degli altri e dei soli lavoratori, pontificando nel suo Paese d’origine, facendo voti che qui si imiti il capitalismo USA (e getta) preso a modello di una economia di mercato. In uno dei titoli in grassetto che corredano il servizio di di cui stiamo trattando, si evidenzia una notazione del j’accuse di Delves , che ricorda come tra i suoi compagni di corso e tra i tanti altri trombati ormai senza lavoro, con tanto di Mba rilasciato sulle rive del fiume Charles, sia diventato ambitissimo “ un posto di lavoro nello Stato”. Non vorremmo che l’emergere di una tale blasfemia con relativo ripudio ci porti nelle aule universitarie italiane il professor Alesina. Infatti qua gli economisti(ci) accademici sono ben lungi dal razzolare come predicano, risultando del tutto inamovibili, pur adeguandosi al verbo della Business School di Harvard in materia, ma solo per gli altri. Inoltre perché non si copia solo nei templi della scienza triste nordamericani. Qui è da tempo che chi non può “sciacquare” direttamente i suoi “panni nel fiume Charles” ne media le meraviglia “scientifiche” di seconda mano, spacciandole come frutto di “ricerca avanzata” (ma solo lungo i paralleli, evidentemente) agli ignari studenti italiani. Che non a caso pagano molto meno tasse per docenti di seconda e riciclata scelta (un mio collega di studi universitari, da tempo immemore in cattedra, mi confessò di aver vinto nel relativo concorso grazie a materiale scientifico copiato dai ricorrenti e ripetitivi esercizi svolti da semplici tutor alla London School of Economics, dove si era recato per qualche tempo a “studiare” (?). In realtà sputava nel piatto dove avrebbe infine mangiato: in quei concorsi si vince prima di farli e non si legge ciò che andrebbe in realtà giudicato. In attesa del “miracolo Gelmini”, se mai avverrà vista la permanente carica conservatrice della monarchia rettocratica italiota).
Vittorangelo Orati

La (de)Rive Gauche: o meglio, una sinistra deriva del pensiero.



Chi dovesse credere che l’insipienza e il grigiore culturale che sta dietro ai ripetuti fallimenti del centro-sinistra – non esclusa l’inconsistenza dell’armamentario tradizionale e deteriore del politico manovriero, attraverso il quale e ripetutamente “capitani di lungo corso” sotto le più svariate”foto di famiglia” social-comunista si son fatti fregare da un imprenditore (oligopolista) per decreto governativo, politicamente parvenu – sia il frutto di un inascoltato patrimonio in possesso della sua componente sedicente “radicale”ed erede del lascito marxista, sbaglierebbe. Sia in termini fotografici (“ istantanea”) che di prospezione filmica ( potenziale dinamica futura) sarebbe più promettente, almeno sul piano dell’illusione, un composto silenzio cui annettere speranze su “lavori in corso” in attesa di possibile palingenesi.
Per rendersi conto dello sbando teorico, della confusione, del raffazzonato quando non impossibile sincretismo che caratterizza questa componente, è sufficiente andare all’annuncio e al resoconto ( del 7 e 10 ottobre 2007 ) di quel rassemblemant autodefinitosi Rive Gauche che si è riunito martedì 9 ottobre 2007 a Roma. Qui “gli economisti”, che in quanto studiosi della “struttura” sans phrase del capitalismo e della sua attuale fase globale rappresentano il momento chiave dell’elaborazione della “sinistra alternativa”, si son dati i seguenti temi da trattare con altrettante sezioni di lavoro: 1) Impianto neo-liberista della UE. Mezzogiorni (sic?!) e condizioni di lavoro, 2) Struttura economica italiana, lavoro, salario, precarietà. Infine si è svolta una tavola rotonda su “Lavoro, precarietà, welfare: quali capisaldi di politica economica per l’unità a sinistra?”. Sullo sfondo di una tale iniziativa, un primo esemplare di cotanta “intellighenzia” concentrata, l’appello “degli economisti” al governo Prodi del luglio 2006
( www.appellodeglieconomisti.com) che sia per i suoi contenuti che per la sua illicenziosa vocazione ecumenico-omologante ci ha risolti a formalizzare quanto da molto tempo di fatto attuiamo: uanto da tempo dismettere l’abito “professionale” di “economista” in favore di quello meno compromesso esprimibile con il neologismo di “economologo”. Che democraticamente proponiamo a quanti come noi dovessero determinarsi a non s’adapter au milieu.

Iniziamo dall’”appello degli economisti”il cui titolo sintetizza il contenuto: “Non abbattere il debito pubblico ma stabilizzarlo e rilanciare il paese”.

Qui in buona sostanza si sostiene in punto di scienza ( grassetto nell’originale) che:
“…in primo luogo, l’unificazione monetaria europea e la presenza di un mercato finanziario integrato hanno fortemente ridimensionato i differenziali tra i tassi d’interesse dei paesi membri, e non sussiste alcun motivo tecnicamente plausibile per attendersi incrementi significativi e duraturi di tali differenziali. Qualsiasi riferimento ad eventuali reazioni avverse da parte dei mercati andrebbe pertanto seriamente argomentato sul piano tecnico-scientifico, anziché essere semplicisticamente evocato.…non esiste un’unica definizione plausibile di sostenibilità delle finanze pubbliche: per ogni data differenza tra i tassi d’interesse e i tassi di crescita del reddito, esistono molteplici combinazioni possibili del deficit e del debito, tutte sostenibili sul piano della stretta logica economica. Questo significa che i vincoli del deficit al 3% e del debito al 60% del Pil, sanciti dal Trattato dell’Unione, non godono in quanto tali di alcuna legittimazione scientifica. Nulla impedisce, pertanto, che essi vengano sottoposti ad una nuova e diversa valutazione in sede politica, nazionale ed europea. A questo riguardo, è opportuno ricordare che il Trattato dell’Unione non prevede sanzioni rispetto al vincolo del debito pubblico al 60%, e che le sanzioni previste per i paesi il cui deficit superasse il limite del 3% non sono finora mai state applicate, nonostante le significative e ripetute violazioni…”

Pertanto, perorando l’esigenza di stabilizzare il debito pubblico si suggeriscono:

“ … provvedimenti coraggiosi ed incisivi: un programma di legislatura che preveda ampi investimenti nel sistema delle infrastrutture materiali e immateriali, nell’istruzione, nella formazione e nella ricerca scientifica e tecnologica; un indirizzo di politica industriale che spinga il nostro tessuto produttivo verso un modello di sviluppo fondato sulle nuove tecnologie, e che risulti equilibrato sul piano ambientale e territoriale; una diversa disciplina del mercato del lavoro e delle relazioni industriali che ripristini le condizioni per la crescita dei salari reali, per il superamento di una logica produttiva fondata sulla precarietà del lavoro, per il rafforzamento degli ammortizzatori sociali e più in generale degli strumenti di welfare.”Prima di entrare in medias res, la prima cosa che sconcerta è che da un documento di un gruppo che rappresenta la “sinistra antagonista” manchi un preambolo che a tale “antagonismo” faccia un qualche riferimento; e dal quale preambolo si sarebbe magari fatta discendere una proposta minima, al fine di evitare per sé l’accusa di astratto utopismo massimalista, e per il governo di centro-sinistra una linea Maginot oltre la quale risultare omologato alla pandemia neo-liberista in materia economica.
Ben al contrario, quel che al massimo può evocare il documento in parola è una posizione àla Stiglitz, dove si accetta oggettivamente per buona la “Bolla” neo-neoclassica, che ha identificato Keynes e il comunismo - che neanche una cultura da bancarella in una fiera di paese sarebbe pronta ad accreditare-. E dove la globalizzazione insieme alla EU non sono giudicate in sé e per sé cose “cattive” potendosi pensare a una loro versione “progressiva”. La prima, per esempio, senza il “Waschington consensus” e la seconda, per esempio, con un mandato più ampio di quello di Cerbero antinflazionistico, ma anche con licenza anticiclica sul modello della FED. EU meno sbracata nei suoi confini onde evitare di poter partorire mostri come la “Direttiva Bolkestein”.Tutto ciò risultando del tutto in linea con un “liberal” a stelle e strisce e a un ispirato pensatoio (?) veltroniano, ma del tutto estraneo ad una cultura economica soi-disant “radicale e antagonista”. A quest’ultimo proposito sarebbe stato anche possibile in un tale ipotetico “preambolo” ricordare la precedente bocciatura ( 2005) non da parte delle “ guardie rosse” maoiste ma dei francesi e degli olandesi, dello statuto iperliberista della EU. E da qui invitare il governo ad iniziare e stimolare anche tra i partners europei un radicale ripensamento della “missione” dell’Unione europea. Inoltre sarebbe stato opportuno anche un richiamo alla globalizzazione e ai suoi effetti devastanti nei paesi una volta più industrializzati a causa delle delocalizzazioni. Fenomeno che ( inter alia), stante il suo incombente ricatto, è uno dei motivi della precarizzazione del lavoro. Ora, nel mentre Keynes non nascondeva il suo intento di rendere il capitalismo cosciente del suo congenito difetto di non poter assicurare in generale la piena occupazione. Facendosi carico di indicare il modo (a suo dire) con cui correre ai ripari, - non più rimandabili in tal senso dopo la nascita dell’URSS e dei riflessi di ciò per il futuro dei “pauci sed electi” del “circolo” cantabrigese degli “Apostles” e dell’appena più vasto e trasgressivo gruppo di Bloomsbury -. Ripari comprensivi del suo dissenso dal sacrificare l’occupazione domestica in ossequio alla logica del free-trade ( vedi la sua riabilitazione del Mercantilismo nel cap.XXIII della General Theory). Da un documento di obiettiva fede keynesiana non una parola di presa di distanza dalla Globalizzazione viene espressa nell’”appello” in discorso. Nonostante, insieme a tutto il resto, tra i “miracoli” del libero commercio, nel 2006, vi fosse da poter annoverare un quinquennio di stagnazione dell’Italia e della intera EU. Ma come poter divorziare dal dogma ricardiano dei “costi comparati” senza incorrere nella blasfemia e quindi negli strali del milieu internazionale degli “economisti” che si fanno dettare musica e spartiti dall” ? Non è ciò da mettere in qualche connessione con il silenzio dell’ “appello” sull’asimmetrica prassi del FMI che emette voti e bocciature, mandando ispettori ad ogni cedimento in materia di debito e deficit pubblico nel “Bel Paese” sorvolando sistematicamente su i due deficit gemelli made in USA? Stati Uniti che specie con il deficit federale non sono mai stati tanto keynesiani come adesso imponendo attraverso il loro controllato FMI a tutto il resto del mondo l’ortodossia monetarista ( e dintorni) del pareggio del bilancio come sana espressione di finanza pubblica. Che dire poi del filisteismo straripante che si cela dietro il fatto di disobbedire al patto di stabilità in materia di sforamento della soglia del 3% sul Pil del deficit pubblico con l’argomento delle mancate sanzioni alla Francia e alla Germania che vi sono episodicamente incorse, e di fare forza sulla circostanza che non sono previste sanzioni per quanto attiene il superamento della soglia del 60% del PIL riguardo al debito Pubblico? Non rivelano con tali consigli (“dritte”) questi “economisti” la faccia di un Italia dove il principio per cui pacta sunt servanda è andato perduto insieme ad ogni certezza nel diritto? Non sarebbe stato più cristallino e nobile denunciare i fondamenti della filosofia iperliberista che è alla base della Unione Europea incitando in tal senso un governo che voglia realmente realizzare un Europa dei popoli, e non dei capitali soltanto? No! Meglio andare a sfidare la Commissione europea bluffando! Tenuto conto che quando la congiuntura è sfavorevole non c’è thatcherismo professato che non ricorra tacitamente a espedienti keynesiani. Pertanto, che c’è di radicalmente alternativo rispetto ad un governo ispirato ai canoni iperliberisti nell’invocare una riqualificazione della spesa pubblica al fine di migliorare le strutture materiali e immateriali e puntando sulla nuove tecnologie, l’istruzione e la ricerca al fine evidente di eccellere nell’agone internazionale, dove chi perde a causa della concorrenza, a differenza di quanto avviene in una economia chiusa, non recupera per un più produttivo utilizzo le risorse perse dal soccombente, ma partecipa ad un jeu de massacre. Tutto questo condividendo gli “economisti italiani “engagè” con i loro referenti politici un pacifismo di maniera che considera violenza la morte per mezzo delle armi e non oggettivamente quella provocata dal darwinismo insito in tutta la storia del free-trade! Come ignorare che prima della “rivoluzione industriale Cina e India rappresentavano il 60% del PIL mondiale, e che quello che la globalizzazione va consumando a danno delle ex metropoli capitalistiche è una sorta di nemesi storica? Ma certo, Marx al tempo della “Lega di Manchester” prese posizione per il “libero scambio”; ma come chiedere a chi ha confuso Marx e l’iperuranico sistema sraffiano-neoricardiano di rompere con i fatali e ulteriori errori ricardiani ( astoricità nell’impostazione del “problema della trasformazione dei valori in prezzi”, la “legge della caduta tendenziale del saggio del profitto”, il tacito terreno epistemologico del problema del lavoro “produttivo/improduttivo” etc,) dell’autore de “ Il Capitale” di svilupparne invece più proficuamente il metodo? Nel mentre in sede accademica il massimo di “contributo originale” ( del tutto arenatosi per confusione di rotte alternative e realmente in tal caso “antagoniste”) fornito dalla componente più arzilla dei firmatari l’”appello” ha nel passato proposto impossibili simbiosi”eterodosse”. Attraverso il pathcwork di tutti i déjà vu in materia di paradigmi scientifici già rubricati (tra loro assolutamente incompatibili sul piano epistemologico), come mera variazione sul tema delle esercitazioni interne alla logica conservatrice del puzzle solving ( vedi T. Kuhn) o del semplice passaggio dalla vague della” teoria dei giochi” ai più spensierati e infantilmente disarmanti giochi sulla ( invece che della) teoria. Oppure, in alternativa, in un impazzimento del relativismo (scetticismo) gnoseologico, estrema conseguenza dell’ “anarchismo Metodologico” di Feyerabend, che fa addirittura rifulgere la “resistenza” sull’argomento di Benedetto XVI. Feyerabend che infine approdando alla tesi della “scienza come arte” avrebbe certamente escluso il pathcwork suddetto tra paradigmi scientifici incompatibili ( Marx, più Wicksell, Schumpeter e Keynes- studiare per credere!) come operazione “artisticamente”dopolavoristica.

E adesso entriamo nel merito. Ignorando la logica della dinamica della globalizzazione -sulla quale persino il più famoso e celebrato dei Nobel Prized Samuelson nutre dubbi sulla validità generale del teorema ricardiano dei costi comparati per giustificare sempre il free-trade ( P.A.Samuelson, Where Ricardo and Mill Rebut and Confirm Arguments of Mainstream Economists Supporting Globalization, , Vol.18, n.3, Summer 2004)-, i nostri “economisti” sono portati a dimenticare la situazione di sostanziale equilibrio stagnazionistico in cui giace l’Italia che è da assimilare più ad una economia in stato riproduttivo piuttosto che recessivo. In altri termini non va confusa la disoccupazione da continua estromissione dal mercato globale con quella che viene generata ciclicamente in una economia chiusa. Non è il desiderio di tornare a lavorare con fabbriche via, via delocalizzate all’estero ad omologare i lavoratori alla disoccupazione involontaria keynesiana. Oltre al lavoro nell’attuali circostanze non vi sono altre risorse economiche disoccupate con cui poter potenzialmente ricombinare produttivamente il primo. Il capitale se ne va dove trova lavoro meno caro all’estero e dove comunque gli è più proficuo contemporaneamente innovare, lucrando sia in termini di plusvalore assoluto che relativo. Inoltre da qui fa concorrenza vincente a chi rimane in madrepatria ancora indeciso se delocalizzare o meno, trovando momentanea panacea nella precarizzazione del lavoro assecondata da una legiferazione che ne ufficializza la nascita e la presenza nonché da una rinunciataria politica sindacale costretta all’angolo- come sanno anche i principianti- dalla debolezza strutturale delle sue rivendicazioni in un clima di tal fatta. Che non vi siano le condizioni per innestare processi virtuosi affidati al moltiplicatore della spesa pubblica in una condizione di “paradossale” sempre più precario pieno impiego è dimostrato dalla sostanzialmente realizzata “eutanasia del rentier” keynesiana - che ove ce ne fosse bisogno segnala il fallimento dell’eponimo paradigma – in quanto il sostanzialmente azzerato livello del saggio d’interesse reale che ha accompagnato questo declino stagnazionistico- non ha sollecitato alcuna ripresa della propensione ad investire i profitti dei monopoli privati succeduti a quelli statali se non incentivando in modo improduttivo la speculazione borsistica. Trainata dalle varie bolle speculative alimentate dalla incessante “innovazione finanziaria” made in USA, neologismo per intendere il continuo travestimento di carta straccia da affibiare al “parco buoi” ormai internazionale. E’ai consumi e all’estinguersi progressivo del risparmio che si è lasciato il compito, come da copione, di alimentare una logica sostanzialmente stagnazionistica. Dove il deficit dei patrimoni privati si è aggiunto a quello pubblico. Con una sorta di keynesismo privato che naturalmente non va oltre i vecchi effetti della liquidazione dei “gioielli di famiglia”, come si confà a tutte le aristocrazie in via di decadenza; si tratti pure ( “ironie della storia”) delle ex aristocrazie operaie dell’occidente in via di sottosviluppo. A tal proposito ci piace chiarire quello che nelle giornate romane dell’ottobre del 2007 viene riferito essere emerso come arcano inspiegato : “…tra i misteri italiani c’è anche il rapporto tra una bassa crescita e l’aumento dell’occupazione, quasi soltanto di tipo precario” ( F.Piccioni, L’economia globale della precarietà, ,10 ottobre,2007 in una pagina dedicata alla “ Rive Gauche”).Quando aumenta l’occupazione e ciò non si traduce in sviluppo ( o crescita) si sta attuando regresso tecnologico; e quindi nel mentre si è sin qui parlato in “letteratura” di Paesi in via di sviluppo, per le ex cittadelle del capitalismo occidentale e certamente per l’Italia sarebbe il caso di cominciare a ad affrontare il fenomeno in atto dei “Paesi in via di sottosviluppo”. Che evidentemente non è solo un fenomeno economico ma anche di grave sottosviluppo della “scienza economica” che non riesce a percepirlo e diagnosticarlo. Sicché la figura dell’ultimo soldato giapponese che continua a combattere una guerra inesistente è la più prossima immagine che evocano i proclami e i convegni all’insegna della Derive Gauche che contemporaneamente configura gli estremi di una “sinistra deriva” intellettuale ed etica, conseguentemente .

Vittorangelo Orati

P.S.
Oltre che da “sindrome dell’ultimo giapponese” gli animatori della Rive Gauche devono soffrire di daltonismo, avendo equivocato come ancora “rosso” il pluritrasformista presidente dell’Assogestioni e grande teorico del (corto) “Circuito”, M. Messori, tra i principali artefici del bidone del TFR per i lavoratori ancora occupati. La piena cittadinanza in quel consesso, dove ha anche discettato, la dice lunga oltre che sulla deriva della sinistra, sul silenzio in proposito de < Il Manifesto>, che si conferma culla di altrettanti “comunisti di razza”, come l’ Annunziata , il “sublime”direttore dei “sandwiches” del TG 1 Gianni Riotta et omnes genus omnis, nonché allevatore di futuri columnists del rivoluzionario .