domenica 6 settembre 2009

Cala il sipario sul tempio (teatrino) di Harvard: la crisi e il momento della verità sulle responsabilità degli economisti(ci)?




Confesso che per la sua illeggibilità “estetica” (trovare un articolo in un autentico festival della controproducente, secondo me, pubblicità è più questione di masochismo che non di motivato interesse) oramai cestino costantemente (che paradossalmente è l’acronimo di“Intelligence in lifestyle”), ovvero il “magazine” del sabato. Specie adesso, in quanto la nuova direzione di “Benjamin” non fa sperare alcun miglioramento se non temere una intrusione pesante dello stesso personaggio nella impostazione de il “Domenicale” del giornale confindustriale. Che, a parte il fatto di rimanere chiuso agli autentici outsider della cultura imperante, è tra le cose migliori da tenere d’occhio per vedere cosa bolle in pentola alla industria culturale “ufficiale” e quella solo apparentemente non tale e in odore di qualche eterodossia, ma in realtà nella prima e per la prima “embedded”.
Ma per il supplemento al rosa quotidiano di viale Dell’Astronomia di sabato 16 maggio u.s., ho fatto una eccezione, solo perché guidato da una comunicazione dell’ANDU (Associazione Nazionale Docenti Universitari) che meritoriamente segnalava un articolo ai “colleghi economisti”. Ciò, nella speranza del tutto infondata, aggiungo io, che questi inizino un processo di autocritica profonda alla luce dei disastri cui ha condotto la loro “triste scienza”. La divisione sciagurata del sapere akkademico infatti non fa sospettare al di fuori dei suoi confini che la vecchia e gloriosa Political Economy (Economia Politica)è ormai ridotta alla risibile economics . Preda esclusiva degli “economistici” da cui non ci si può aspettare alcuno scrupolo di coscienza , vista l’assenza completa della materia prima: la coscienza giustappunto. Di ciò abbiamo dato puntuale misura a proposito dei tentativi di un necessario lavacro da parte di una “professione” che fino a ieri prima del disastro globale non mancava di sottolineare ogni giorno la giustezza dei propri dogmi circa le insuperabili virtù del mercato e dei suoi connessi meccanismi autoregolativi in presenza di una crescita ininterrotta e per tutti.
Dunque a p.137 del su citato magazine era dato ritrovare un ampio servizio (3 pagine a netto di pubblicità) che principiava con il titolo “ 2009: fuga da Harvard”, con relativo occhiello “Lezioni di economia: confessioni al veleno di uno specializzato Mba”, il tutto accompagnato da un ricco sommario: “ Crisi, fallimenti e bolle varie hanno appannato la fama dei master in business administration, i corsi post-laurea che aprivano le porte della finanza e del successo: più che una fucina di supermanager, la culla del disastro?”. Ebbene, un tale Phillip Delves ex allievo della Harvard Business School , dispensatrice dell’ormai esecrato Mba (Master in Business Administration) si sfoga verso la sua Alma Mater, sino al punto di iniziare la sua denuncia evocando “ il terrore” dei giacobini : “ Se Robespierre risorgesse dall’inferno e volesse mettersi a cercare materiale da ghigliottina, potrebbe cominciare da tutti quelli che sfoggiano accanto al loro nome quelle tre iniziali incriminanti: Mba”. Cifre che la rabbia dell’articolista trasforma in acronimo di Mediocre But Arrogant (Mediocre e però arrogante) , MightyBig Attitude (Mi credo chi sa chi), Me Before Anyone (Io prima di ogni altro) e Management By Accident (Manager per caso) alla luce del botto con pernacchia che ha oggettivamente sanzionato il fallimento di tanta presunta “scienza “. La quale ha visto gli Harvard boys in prima fila alla guida delle principali aziende finanziarie e non , le cui malefatte hanno amplificato l’ “ eterno ritorno” delle crisi cicliche che ogni tanto gli economisti(ci) si illudono di aver definitivamente sconfitto, vendendosi come autentici scienziati (oltre che nella misticheggiante cultura indù in India, solo tra gli economisti(ci)è invalso l’uso di individuare gli eletti tra loro come “guru”).
Delves non si ferma a elencare i reprobi con Mba, ma va oltre svelando la mediocrità se non il pattume dei contenuti dei relativi corsi harvardiani , documentandone la assenza di “sguardo critico” e la prevalente motivazione dei suoi studenti a copiare e uniformarsi a ciò che fanno gli altri. E a conferma di quanto abbiamo detto a proposito della esigenza di sloggiare gli economisti(ci ) facendo appello alla logica dello spirito proprio a un “comitato di salute pubblica” (fatta salva la ghigliottina, magari sostituita da un cappello da asino) in quanto vano sarebbe sperare “ parole di contrizione” da parte della corporazione, il pentito harvardiano ci racconta un episodio a dir poco agghiacciante in termini di “faccia tosta”. Mentre nell’ottobre 2008 si consumava il crollo a Wall Street e Washington prendeva atto del precipizio in cui era caduto il sistema economico statunitense , il Dean (Preside) della Harvard Business School (Jay Light) ne festeggiava il secolo di esistenza a Boston, denunciando in tale occasione la dimostratasi mancanza di leadership ai vari livelli operativi della finanza e lasciando ad altri l’accertamento delle responsabilità, non senza però al contempo candidare nuovamente la “Scuola” e i suoi adepti ad “ essere coinvolti fattivamente per la soluzione del problema”. Che è un po’ come invocare di incaricare delle indagini su tutti i serial killer d’America tutti gli allievi di Hannibal Lecter (l’antropofago interpretato da Anthony Hopkins nel film “ Il silenzio degli innocenti”).
Delves evidenzia inoltre come il famigerato Mba costi 70.000$ per un biennio di studi, ma che nonostante le promesse di sfornare manager di ineguagliabile livello non se ne trovi neanche uno di essi tra quelli che hanno segnato la storia imprenditoriale statunitense degli ultimi anni. Ne fornisce un dettagliato elenco che è tanto sorprendente quanto quello dei massimi responsabili delle malefatte finanziarie che hanno amplificato la crisi attuale, puntualmente “formati” nell’ormai protestato tempio della Cambridge a stelle e strisce.
C’è ampia materia per farmi suggerire alternative interpretazioni dell’acronimo Mba: “Maleodoranti bancarottieri akkademici”, “Mortali benefici assicurati”, “Millantatori benemeriti e analfabeti”, “Molti benestanti affossati”, e chi più ne ha più ne metta. Ma anche per richiamare ad essere coerente dopo aver pubblicato l’articolo per sommi capi qui sintetizzato. Che tale articolo gli valga per liberarsi della collaborazione di Alesina che sulla sua harvardianità dispensa puntualmente banalità e falsità a iosa dalle pagine del famoso quotidiano economico italiano. Se ad Harvard mancano studenti e il professor Alesina è costretto forse a compensare il minor salario americano ( per la flessibilità?) con le sue collaborazioni su quest’ultimo foglio la smetta però di beatificare la “flessibilità” del lavoro degli altri e dei soli lavoratori, pontificando nel suo Paese d’origine, facendo voti che qui si imiti il capitalismo USA (e getta) preso a modello di una economia di mercato. In uno dei titoli in grassetto che corredano il servizio di di cui stiamo trattando, si evidenzia una notazione del j’accuse di Delves , che ricorda come tra i suoi compagni di corso e tra i tanti altri trombati ormai senza lavoro, con tanto di Mba rilasciato sulle rive del fiume Charles, sia diventato ambitissimo “ un posto di lavoro nello Stato”. Non vorremmo che l’emergere di una tale blasfemia con relativo ripudio ci porti nelle aule universitarie italiane il professor Alesina. Infatti qua gli economisti(ci) accademici sono ben lungi dal razzolare come predicano, risultando del tutto inamovibili, pur adeguandosi al verbo della Business School di Harvard in materia, ma solo per gli altri. Inoltre perché non si copia solo nei templi della scienza triste nordamericani. Qui è da tempo che chi non può “sciacquare” direttamente i suoi “panni nel fiume Charles” ne media le meraviglia “scientifiche” di seconda mano, spacciandole come frutto di “ricerca avanzata” (ma solo lungo i paralleli, evidentemente) agli ignari studenti italiani. Che non a caso pagano molto meno tasse per docenti di seconda e riciclata scelta (un mio collega di studi universitari, da tempo immemore in cattedra, mi confessò di aver vinto nel relativo concorso grazie a materiale scientifico copiato dai ricorrenti e ripetitivi esercizi svolti da semplici tutor alla London School of Economics, dove si era recato per qualche tempo a “studiare” (?). In realtà sputava nel piatto dove avrebbe infine mangiato: in quei concorsi si vince prima di farli e non si legge ciò che andrebbe in realtà giudicato. In attesa del “miracolo Gelmini”, se mai avverrà vista la permanente carica conservatrice della monarchia rettocratica italiota).
Vittorangelo Orati

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