domenica 6 settembre 2009

La (de)Rive Gauche: o meglio, una sinistra deriva del pensiero.



Chi dovesse credere che l’insipienza e il grigiore culturale che sta dietro ai ripetuti fallimenti del centro-sinistra – non esclusa l’inconsistenza dell’armamentario tradizionale e deteriore del politico manovriero, attraverso il quale e ripetutamente “capitani di lungo corso” sotto le più svariate”foto di famiglia” social-comunista si son fatti fregare da un imprenditore (oligopolista) per decreto governativo, politicamente parvenu – sia il frutto di un inascoltato patrimonio in possesso della sua componente sedicente “radicale”ed erede del lascito marxista, sbaglierebbe. Sia in termini fotografici (“ istantanea”) che di prospezione filmica ( potenziale dinamica futura) sarebbe più promettente, almeno sul piano dell’illusione, un composto silenzio cui annettere speranze su “lavori in corso” in attesa di possibile palingenesi.
Per rendersi conto dello sbando teorico, della confusione, del raffazzonato quando non impossibile sincretismo che caratterizza questa componente, è sufficiente andare all’annuncio e al resoconto ( del 7 e 10 ottobre 2007 ) di quel rassemblemant autodefinitosi Rive Gauche che si è riunito martedì 9 ottobre 2007 a Roma. Qui “gli economisti”, che in quanto studiosi della “struttura” sans phrase del capitalismo e della sua attuale fase globale rappresentano il momento chiave dell’elaborazione della “sinistra alternativa”, si son dati i seguenti temi da trattare con altrettante sezioni di lavoro: 1) Impianto neo-liberista della UE. Mezzogiorni (sic?!) e condizioni di lavoro, 2) Struttura economica italiana, lavoro, salario, precarietà. Infine si è svolta una tavola rotonda su “Lavoro, precarietà, welfare: quali capisaldi di politica economica per l’unità a sinistra?”. Sullo sfondo di una tale iniziativa, un primo esemplare di cotanta “intellighenzia” concentrata, l’appello “degli economisti” al governo Prodi del luglio 2006
( www.appellodeglieconomisti.com) che sia per i suoi contenuti che per la sua illicenziosa vocazione ecumenico-omologante ci ha risolti a formalizzare quanto da molto tempo di fatto attuiamo: uanto da tempo dismettere l’abito “professionale” di “economista” in favore di quello meno compromesso esprimibile con il neologismo di “economologo”. Che democraticamente proponiamo a quanti come noi dovessero determinarsi a non s’adapter au milieu.

Iniziamo dall’”appello degli economisti”il cui titolo sintetizza il contenuto: “Non abbattere il debito pubblico ma stabilizzarlo e rilanciare il paese”.

Qui in buona sostanza si sostiene in punto di scienza ( grassetto nell’originale) che:
“…in primo luogo, l’unificazione monetaria europea e la presenza di un mercato finanziario integrato hanno fortemente ridimensionato i differenziali tra i tassi d’interesse dei paesi membri, e non sussiste alcun motivo tecnicamente plausibile per attendersi incrementi significativi e duraturi di tali differenziali. Qualsiasi riferimento ad eventuali reazioni avverse da parte dei mercati andrebbe pertanto seriamente argomentato sul piano tecnico-scientifico, anziché essere semplicisticamente evocato.…non esiste un’unica definizione plausibile di sostenibilità delle finanze pubbliche: per ogni data differenza tra i tassi d’interesse e i tassi di crescita del reddito, esistono molteplici combinazioni possibili del deficit e del debito, tutte sostenibili sul piano della stretta logica economica. Questo significa che i vincoli del deficit al 3% e del debito al 60% del Pil, sanciti dal Trattato dell’Unione, non godono in quanto tali di alcuna legittimazione scientifica. Nulla impedisce, pertanto, che essi vengano sottoposti ad una nuova e diversa valutazione in sede politica, nazionale ed europea. A questo riguardo, è opportuno ricordare che il Trattato dell’Unione non prevede sanzioni rispetto al vincolo del debito pubblico al 60%, e che le sanzioni previste per i paesi il cui deficit superasse il limite del 3% non sono finora mai state applicate, nonostante le significative e ripetute violazioni…”

Pertanto, perorando l’esigenza di stabilizzare il debito pubblico si suggeriscono:

“ … provvedimenti coraggiosi ed incisivi: un programma di legislatura che preveda ampi investimenti nel sistema delle infrastrutture materiali e immateriali, nell’istruzione, nella formazione e nella ricerca scientifica e tecnologica; un indirizzo di politica industriale che spinga il nostro tessuto produttivo verso un modello di sviluppo fondato sulle nuove tecnologie, e che risulti equilibrato sul piano ambientale e territoriale; una diversa disciplina del mercato del lavoro e delle relazioni industriali che ripristini le condizioni per la crescita dei salari reali, per il superamento di una logica produttiva fondata sulla precarietà del lavoro, per il rafforzamento degli ammortizzatori sociali e più in generale degli strumenti di welfare.”Prima di entrare in medias res, la prima cosa che sconcerta è che da un documento di un gruppo che rappresenta la “sinistra antagonista” manchi un preambolo che a tale “antagonismo” faccia un qualche riferimento; e dal quale preambolo si sarebbe magari fatta discendere una proposta minima, al fine di evitare per sé l’accusa di astratto utopismo massimalista, e per il governo di centro-sinistra una linea Maginot oltre la quale risultare omologato alla pandemia neo-liberista in materia economica.
Ben al contrario, quel che al massimo può evocare il documento in parola è una posizione àla Stiglitz, dove si accetta oggettivamente per buona la “Bolla” neo-neoclassica, che ha identificato Keynes e il comunismo - che neanche una cultura da bancarella in una fiera di paese sarebbe pronta ad accreditare-. E dove la globalizzazione insieme alla EU non sono giudicate in sé e per sé cose “cattive” potendosi pensare a una loro versione “progressiva”. La prima, per esempio, senza il “Waschington consensus” e la seconda, per esempio, con un mandato più ampio di quello di Cerbero antinflazionistico, ma anche con licenza anticiclica sul modello della FED. EU meno sbracata nei suoi confini onde evitare di poter partorire mostri come la “Direttiva Bolkestein”.Tutto ciò risultando del tutto in linea con un “liberal” a stelle e strisce e a un ispirato pensatoio (?) veltroniano, ma del tutto estraneo ad una cultura economica soi-disant “radicale e antagonista”. A quest’ultimo proposito sarebbe stato anche possibile in un tale ipotetico “preambolo” ricordare la precedente bocciatura ( 2005) non da parte delle “ guardie rosse” maoiste ma dei francesi e degli olandesi, dello statuto iperliberista della EU. E da qui invitare il governo ad iniziare e stimolare anche tra i partners europei un radicale ripensamento della “missione” dell’Unione europea. Inoltre sarebbe stato opportuno anche un richiamo alla globalizzazione e ai suoi effetti devastanti nei paesi una volta più industrializzati a causa delle delocalizzazioni. Fenomeno che ( inter alia), stante il suo incombente ricatto, è uno dei motivi della precarizzazione del lavoro. Ora, nel mentre Keynes non nascondeva il suo intento di rendere il capitalismo cosciente del suo congenito difetto di non poter assicurare in generale la piena occupazione. Facendosi carico di indicare il modo (a suo dire) con cui correre ai ripari, - non più rimandabili in tal senso dopo la nascita dell’URSS e dei riflessi di ciò per il futuro dei “pauci sed electi” del “circolo” cantabrigese degli “Apostles” e dell’appena più vasto e trasgressivo gruppo di Bloomsbury -. Ripari comprensivi del suo dissenso dal sacrificare l’occupazione domestica in ossequio alla logica del free-trade ( vedi la sua riabilitazione del Mercantilismo nel cap.XXIII della General Theory). Da un documento di obiettiva fede keynesiana non una parola di presa di distanza dalla Globalizzazione viene espressa nell’”appello” in discorso. Nonostante, insieme a tutto il resto, tra i “miracoli” del libero commercio, nel 2006, vi fosse da poter annoverare un quinquennio di stagnazione dell’Italia e della intera EU. Ma come poter divorziare dal dogma ricardiano dei “costi comparati” senza incorrere nella blasfemia e quindi negli strali del milieu internazionale degli “economisti” che si fanno dettare musica e spartiti dall” ? Non è ciò da mettere in qualche connessione con il silenzio dell’ “appello” sull’asimmetrica prassi del FMI che emette voti e bocciature, mandando ispettori ad ogni cedimento in materia di debito e deficit pubblico nel “Bel Paese” sorvolando sistematicamente su i due deficit gemelli made in USA? Stati Uniti che specie con il deficit federale non sono mai stati tanto keynesiani come adesso imponendo attraverso il loro controllato FMI a tutto il resto del mondo l’ortodossia monetarista ( e dintorni) del pareggio del bilancio come sana espressione di finanza pubblica. Che dire poi del filisteismo straripante che si cela dietro il fatto di disobbedire al patto di stabilità in materia di sforamento della soglia del 3% sul Pil del deficit pubblico con l’argomento delle mancate sanzioni alla Francia e alla Germania che vi sono episodicamente incorse, e di fare forza sulla circostanza che non sono previste sanzioni per quanto attiene il superamento della soglia del 60% del PIL riguardo al debito Pubblico? Non rivelano con tali consigli (“dritte”) questi “economisti” la faccia di un Italia dove il principio per cui pacta sunt servanda è andato perduto insieme ad ogni certezza nel diritto? Non sarebbe stato più cristallino e nobile denunciare i fondamenti della filosofia iperliberista che è alla base della Unione Europea incitando in tal senso un governo che voglia realmente realizzare un Europa dei popoli, e non dei capitali soltanto? No! Meglio andare a sfidare la Commissione europea bluffando! Tenuto conto che quando la congiuntura è sfavorevole non c’è thatcherismo professato che non ricorra tacitamente a espedienti keynesiani. Pertanto, che c’è di radicalmente alternativo rispetto ad un governo ispirato ai canoni iperliberisti nell’invocare una riqualificazione della spesa pubblica al fine di migliorare le strutture materiali e immateriali e puntando sulla nuove tecnologie, l’istruzione e la ricerca al fine evidente di eccellere nell’agone internazionale, dove chi perde a causa della concorrenza, a differenza di quanto avviene in una economia chiusa, non recupera per un più produttivo utilizzo le risorse perse dal soccombente, ma partecipa ad un jeu de massacre. Tutto questo condividendo gli “economisti italiani “engagè” con i loro referenti politici un pacifismo di maniera che considera violenza la morte per mezzo delle armi e non oggettivamente quella provocata dal darwinismo insito in tutta la storia del free-trade! Come ignorare che prima della “rivoluzione industriale Cina e India rappresentavano il 60% del PIL mondiale, e che quello che la globalizzazione va consumando a danno delle ex metropoli capitalistiche è una sorta di nemesi storica? Ma certo, Marx al tempo della “Lega di Manchester” prese posizione per il “libero scambio”; ma come chiedere a chi ha confuso Marx e l’iperuranico sistema sraffiano-neoricardiano di rompere con i fatali e ulteriori errori ricardiani ( astoricità nell’impostazione del “problema della trasformazione dei valori in prezzi”, la “legge della caduta tendenziale del saggio del profitto”, il tacito terreno epistemologico del problema del lavoro “produttivo/improduttivo” etc,) dell’autore de “ Il Capitale” di svilupparne invece più proficuamente il metodo? Nel mentre in sede accademica il massimo di “contributo originale” ( del tutto arenatosi per confusione di rotte alternative e realmente in tal caso “antagoniste”) fornito dalla componente più arzilla dei firmatari l’”appello” ha nel passato proposto impossibili simbiosi”eterodosse”. Attraverso il pathcwork di tutti i déjà vu in materia di paradigmi scientifici già rubricati (tra loro assolutamente incompatibili sul piano epistemologico), come mera variazione sul tema delle esercitazioni interne alla logica conservatrice del puzzle solving ( vedi T. Kuhn) o del semplice passaggio dalla vague della” teoria dei giochi” ai più spensierati e infantilmente disarmanti giochi sulla ( invece che della) teoria. Oppure, in alternativa, in un impazzimento del relativismo (scetticismo) gnoseologico, estrema conseguenza dell’ “anarchismo Metodologico” di Feyerabend, che fa addirittura rifulgere la “resistenza” sull’argomento di Benedetto XVI. Feyerabend che infine approdando alla tesi della “scienza come arte” avrebbe certamente escluso il pathcwork suddetto tra paradigmi scientifici incompatibili ( Marx, più Wicksell, Schumpeter e Keynes- studiare per credere!) come operazione “artisticamente”dopolavoristica.

E adesso entriamo nel merito. Ignorando la logica della dinamica della globalizzazione -sulla quale persino il più famoso e celebrato dei Nobel Prized Samuelson nutre dubbi sulla validità generale del teorema ricardiano dei costi comparati per giustificare sempre il free-trade ( P.A.Samuelson, Where Ricardo and Mill Rebut and Confirm Arguments of Mainstream Economists Supporting Globalization, , Vol.18, n.3, Summer 2004)-, i nostri “economisti” sono portati a dimenticare la situazione di sostanziale equilibrio stagnazionistico in cui giace l’Italia che è da assimilare più ad una economia in stato riproduttivo piuttosto che recessivo. In altri termini non va confusa la disoccupazione da continua estromissione dal mercato globale con quella che viene generata ciclicamente in una economia chiusa. Non è il desiderio di tornare a lavorare con fabbriche via, via delocalizzate all’estero ad omologare i lavoratori alla disoccupazione involontaria keynesiana. Oltre al lavoro nell’attuali circostanze non vi sono altre risorse economiche disoccupate con cui poter potenzialmente ricombinare produttivamente il primo. Il capitale se ne va dove trova lavoro meno caro all’estero e dove comunque gli è più proficuo contemporaneamente innovare, lucrando sia in termini di plusvalore assoluto che relativo. Inoltre da qui fa concorrenza vincente a chi rimane in madrepatria ancora indeciso se delocalizzare o meno, trovando momentanea panacea nella precarizzazione del lavoro assecondata da una legiferazione che ne ufficializza la nascita e la presenza nonché da una rinunciataria politica sindacale costretta all’angolo- come sanno anche i principianti- dalla debolezza strutturale delle sue rivendicazioni in un clima di tal fatta. Che non vi siano le condizioni per innestare processi virtuosi affidati al moltiplicatore della spesa pubblica in una condizione di “paradossale” sempre più precario pieno impiego è dimostrato dalla sostanzialmente realizzata “eutanasia del rentier” keynesiana - che ove ce ne fosse bisogno segnala il fallimento dell’eponimo paradigma – in quanto il sostanzialmente azzerato livello del saggio d’interesse reale che ha accompagnato questo declino stagnazionistico- non ha sollecitato alcuna ripresa della propensione ad investire i profitti dei monopoli privati succeduti a quelli statali se non incentivando in modo improduttivo la speculazione borsistica. Trainata dalle varie bolle speculative alimentate dalla incessante “innovazione finanziaria” made in USA, neologismo per intendere il continuo travestimento di carta straccia da affibiare al “parco buoi” ormai internazionale. E’ai consumi e all’estinguersi progressivo del risparmio che si è lasciato il compito, come da copione, di alimentare una logica sostanzialmente stagnazionistica. Dove il deficit dei patrimoni privati si è aggiunto a quello pubblico. Con una sorta di keynesismo privato che naturalmente non va oltre i vecchi effetti della liquidazione dei “gioielli di famiglia”, come si confà a tutte le aristocrazie in via di decadenza; si tratti pure ( “ironie della storia”) delle ex aristocrazie operaie dell’occidente in via di sottosviluppo. A tal proposito ci piace chiarire quello che nelle giornate romane dell’ottobre del 2007 viene riferito essere emerso come arcano inspiegato : “…tra i misteri italiani c’è anche il rapporto tra una bassa crescita e l’aumento dell’occupazione, quasi soltanto di tipo precario” ( F.Piccioni, L’economia globale della precarietà, ,10 ottobre,2007 in una pagina dedicata alla “ Rive Gauche”).Quando aumenta l’occupazione e ciò non si traduce in sviluppo ( o crescita) si sta attuando regresso tecnologico; e quindi nel mentre si è sin qui parlato in “letteratura” di Paesi in via di sviluppo, per le ex cittadelle del capitalismo occidentale e certamente per l’Italia sarebbe il caso di cominciare a ad affrontare il fenomeno in atto dei “Paesi in via di sottosviluppo”. Che evidentemente non è solo un fenomeno economico ma anche di grave sottosviluppo della “scienza economica” che non riesce a percepirlo e diagnosticarlo. Sicché la figura dell’ultimo soldato giapponese che continua a combattere una guerra inesistente è la più prossima immagine che evocano i proclami e i convegni all’insegna della Derive Gauche che contemporaneamente configura gli estremi di una “sinistra deriva” intellettuale ed etica, conseguentemente .

Vittorangelo Orati

P.S.
Oltre che da “sindrome dell’ultimo giapponese” gli animatori della Rive Gauche devono soffrire di daltonismo, avendo equivocato come ancora “rosso” il pluritrasformista presidente dell’Assogestioni e grande teorico del (corto) “Circuito”, M. Messori, tra i principali artefici del bidone del TFR per i lavoratori ancora occupati. La piena cittadinanza in quel consesso, dove ha anche discettato, la dice lunga oltre che sulla deriva della sinistra, sul silenzio in proposito de < Il Manifesto>, che si conferma culla di altrettanti “comunisti di razza”, come l’ Annunziata , il “sublime”direttore dei “sandwiches” del TG 1 Gianni Riotta et omnes genus omnis, nonché allevatore di futuri columnists del rivoluzionario .

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