martedì 1 novembre 2011

Giannino: senza Oscar. Ovvero, “dimmi cosa leggi ti dirò chi sei”




Anche il semplice scorrere del tempo - per nausea esistenziale e rifiuto culturale non sento di poter scrivere ciò che per contaminatio illuministica si continua a “descrivere” quale “evoluzione storica” o anche più neutralmente “la storia” - fa, malgrado tutto, giustizia dell’ingenua valenza soprastorica di antichi adagi come quello che suona: “Dimmi con chi vai, ti dirò chi sei” ( in realtà anche prima dell’uscita dalla così detta “civiltà occidentale” operata dal capitalismo quel detto era attaccabile dal punto di vista della logica formale, in quanto viziato, in modo subdolamente estensivo, dalla fallacia dell’argomentum ad verecundiam o “appello all’autorità” ). Affermatasi l’alfabetizzazione per quanto apparente delle “masse” e la crescente professionalizzazione – per di più con l’isolamento progressivo degli individui e l’esaurirsi tendenziale di materiali relazioni umane sostituite da quelle virtuali via etere - , molto più appropriato sembra essere sostituire la predetta massima con “ dimmi un tuo livre de chevet ( o reference book ,secondo la nuova lingua franca), ti dirò chi sei”. Specie se trattasi di un giudizio sulla attività di “esperto” e il testo a tale attività attinente di qualcuno.
Applicherò dunque tal ultima “formula” a un personaggio recentemente dilagante sui media, Oscar Giannino. Figura che negli ultimi tempi impazza in modo particolare su tutti i canali televisivi. Non da ultimo per aver puntato su un personale modo di abbigliarsi che solo verso i più giovani può accreditarsi come originale, riproponendo - malamente in verità, come riesce a tutti i plagiari - un cliché di un suo vecchio conterraneo piemontese, famoso ai tempi di “Lascia o raddoppia”, tal Gianluigi Mariannini
( esperto di storia della moda e del costume) cui peraltro anche somaticamente Giannino ritiene con qualche evidenza di potersi assimilare.
Ancorché non accademico ( per sua fortuna), ciò nonostante Giannino non sfugge alla sua patentata inclusione nella vastissima famiglia degli economisti(ci) a vario titolo, e più in particolare a quella straripante parte degli “esperti “, con varie funzioni , di economia, pronta a giurare sulle salvifiche e taumaturgiche virtù autoregolative dei mercati. Economisti(ci) la cui religione naturalistico-contemplativa prescrive che l’operare del laissez-faire costituirebbe l’unica regola da seguire per assicurare l’ottimìzzazione in materia di: a)piena occupazione, b) tasso di sviluppo, c) equa ( non ulteriormente migliorabile per il benessere di ciascuno) distribuzione della “ricchezza”, d)stabilità del livello generale dei prezzi. Da una tale “filosofia” in re ipsa antiscientifica per i suoi contenuti, come già detto, assolutamente meramente fatalistico- contemplativi verso il proprio oggetto di “studio”, discende altresì il corollario che vuole che ogni risultato difforme dagli ottimi desiderata appena enunciati deriverebbe da indebite ( e innaturali) interferenze sui meccanismi di libero mercato e delle sole forze che questo animano in chiave atomistica o individualistico-privatistica. Tutto al più si riconosce a una istanza esterna al mercato, come lo Stato,il ruolo di assicurare e imporre il rispetto della libera e perfetta concorrenza, nel caso non peregrino che le “fortune” di alcuni operatori o agenti economici travalichino i confini della prescritta libera competizione. Viene infatti riconosciuta con un empito di realismo la sistematica possibilità del formarsi di posizioni “dominanti” o oligo-monopolistiche sia dal lato della offerta che da quello della domanda nei sinallagmi degli scambi di tutti i soggetti economici, nella loro diversa collocazione meramente funzionale ( assenza di classi) nel processo produttivo.
Pertanto ogni intervento dello Stato ispirato a una filosofia economica di tipo volontaristico che pretenda di alterare in qualche misura gli spontanei meccanismi di mercato sarebbe inutile e/o dannoso. Dove una tale ultima alternativa distingue le opzioni dottrinali più o meno radicali degli economisti(ci) antinterventisti e contemplativo-naturalistici ( da condannare per contrappasso allo spettacolo di figli e discendenti “flessibili” in cerca di un dignitoso lavoro, e una qualche pensione in vecchiaia: in “naturale”, neutra, eterna e immota contemplazione).
Evidentemente i contenuti essenziali appena descritti della corrente di pensiero liberal-liberista sono affidati a diversi strumenti interpretativi ed espositivi, in una gerarchia di tali mezzi che va dai più complicati e sofisticati, a quelli più semplici ed elementari delle piane“chiacchiere”; a loro volta ordinabili in una classifica di merito che va dalla “falsa profondità” dei malamente “più informati” allo slogan propagandistico da campagna elettorale.
Agli accademici che ricorrono alle più spinte formalizzazioni matematiche - trasmutate da mezzo a fine per lo stato comatoso della “dismal science” - spetta l’infondata ”aura” dello “scienziato”, nonché il ruolo di vate di ultima e massima istanza; agli altri che gli stanno via via sotto - in questa piramide tra il “gotico” e l’avanspettacolo tragicomico - spetta il compito di rivestire i panni di “esperto”, più o meno valutato in base allo status dei media che ospitano le sue opinioni. Media che a loro volta filtrano in ragione di vari parametri che premiano la vicinanza più o meno prossima con i vertici del mondo del business. Naturalmente chi tra questi ultimi “esperti” scrive anche “libri” rappresenta la “prima scelta”, nel mentre chi si affida alla sola stampa periodica e/o lavora con sola “apprezzata professionalità “ chiesastica nella dimensione economico-finanziaria rappresenta la “nobiltà cadetta” di questo ramo della “sapienza economica organizzata”.
Premesso tutto ciò Oscar Giannino – che ha scritto qualche libro ( che in verità ci è imperdonabilmente sfuggito) - è prima di tutto prolifico giornalista economico. E dopo molte migrazioni in diverse testate è stato infine ingaggiato alla corte di Confindustria, conducendo una trasmissione quotidiana nella settimana corta sulla radio del foglio rosa di viale Dell’Astronomia. “Informato dei fatti”, con una qualche capacità di porgerli con qualche garbo di superficie, in realtà Giannino è uno Sgarbi in potenza ( come alcuni scontri televisivi hanno disvelato: vedi le “scintille” scoccate in contraddittorio con un campione della massima confusione dottrinale che impera a “sinistra”, Il keynesian-marxista Brancaccio) che si reprime per progetto, volendo e dovendo incarnare la massima ( forse unica) virtù di cui possano vantarsi i liberal-liberisti, in eterno pathos pedagogico: la sistematica vantata “tolleranza “ à la Voltaire. Che fa molta presa su i milioni di elettori italiani, specie in versione di telespettatori. I quali e evidentemente vivono come un avvenimento spettacolare pur semplici assaggi di fairplay anglosassone. I cui principii sono costantemente evocati durante i suoi interventi da Giannino, che abilmente li insinua fuori contesto nei suoi interventi pirotecnici. Ai cui variopinti colori, con sapiente mix di ars retorica e scenografica, Giannino non manca mai di sottrarre all’evidenza delle telecamere sempre nuovi ed “eleganti” bastoni da passeggio , cui la gracilità del personaggio non manca di suggerire in modo subliminale funzioni di ausilio deambulatorio, suscitando così captatio benevolentiae. Insomma , come si dice in gergo, L’Oscar ormai nazionale, “buca lo schermo”, molto più della figura del suo predecessore Mariannini, limitato tecnologicamente dai sepolcrali chiaroscuri della TV in bianco e nero.
Dell’imperdonabile mancata lettura dei “contributi” affidati ai suoi libri abbiamo già confessato il peccato d’omissione, e quindi aver scoperto un testo di economia di cui Giannino ha in più occasioni fatto il peana ha costituito una occasione di “redenzione”, nel senso di una conoscenza indiretta dei suoi punti cardinali teorici affidata a un suo livre de chevet: Tutti gli errori di Keynes di Hunter Lewis( IBLLibri, Torino, 2010).Confessiamo che, critici radicali a nostra volta di Keynes da lunga pezza, eravamo non poco curiosi di veder se finalmente qualcuno avesse per un attimo sospettato argomenti analitici, assolutamente decisivi e dirimenti, in qualche modo prossimi ai nostri, dopo una interminabile semivuota e niente affatto affascinante querelle tra Keynesiani e antikeynesiani svoltasi su ring ufficialmente omologati e preclusi a scomodi outsider. Querelle che si consuma inutilmente a partire dalla pubblicazione nel 1936 del magnum opus del cantabrigese, la General Theory , fino ai nostri giorni. Diatriba in grado invero di rivelare da entrambe le sponde dei diversi contendenti la miseria e il fallimento scientifico cui è pervenuta la sedicente scienza economica. Miseria e fallimento documentate dalle macerie periodiche cui dà luogo la secolare dinamica capitalistica che attende invano la fondazione di una sua adeguata teoria in grado di dar luogo a una opportuna diagnosi e terapia per la madre di tutte le patologie dell’accumulazione del capital: le crisi cicliche. Fatto che denuncia la perniciosa inutilità di intere schiere di economisti(ci) travestiti da gran sacerdoti della “scienza triste”. Non più attrezzati rispetto alla bisogna di quanto lo sia l’esercito della salvezza rispetto ai misteri del peccato originale.
Dunque avuto il libro del suddetto Lewis tra le mani ho immediatamente posto mano alla sua lettura che si è rivelata una autentica sofferenza: in una lunga vita di studioso e lettore e correttore di sempre più impresentabili tesi di una putrescente università, mai mi sono imbattuto in un libro o scritto orribile come questo. Che sospetto rappresenti un autentico reperto di psicopatologia, dove la coazione a ripetere mere promesse di analisi mai concretizzatesi si estrinseca in una logorrea scritturale. Dove si contrappongono alle più popolari tesi del Keynes “eterodosso” il catechismo dell’ortodossia: slogan contro slogan, insomma. Dove appare palmare la incomprensione sostanziale di ciò che Keynes ha realmente ritenuto di confutare circa i canonici articoli di fede del liberalismo in materia di armonie autoregolative dei mercati retti dal laissez-faire.
Dei testi accademici made in Usa Lewis riprende la squallida furbizia del continuo annuncio di ciò che in seguito si promette di affrontare e del successivo sintetizzare il molto poco che si è detto in precedenza. Con l’apparente “virtù” del piano stile espositivo che tanto indignava giustamente Theodor Adorno. Che ben colse la povertà dell’ideale comunicativo “estetico” della scienza e della narrazione “moderne” teso a eguagliare lo stile “protocollare”. Dove l’apparente ideale democratico della massima universalità didascalico-comunicativa tradisce la scomparsa di ogni individualità, con l’indifferenza del e per il soggetto; con massimo scorno della filosofia liberale dell’individualismo. Morte dell’individualità che rivela il sotteso trionfo del suo opposto: la “serialità” (Sartre) o totale sostituibilità degli uni con gli altri.
Ma questo riguarda la sfera dello stile, la cornice estrinseca dei ben”più importanti” contenuti racchiusivi, che sono ben lontani dal riequilibrare quello che altrimenti potrebbe essere inteso come mero canone formale, di per se inessenziale rispetto alla validità della materia trattata.
Passiamo quindi alla sostanza delle argomentazioni (?) di Lewis, un “ solido economista liberale”
(Giannino)il cui libro in argomento risulterebbe , sempre a detta di Giannino, ”programmatico, opalino come il diaspro, puro e tagliente come il diamante” ("Economy", 16 dicembre 2010).
Con involontario umorismo Giannino invita a non farsi “spaventare dalla mole delle 440pagine” del lavoro del sopradetto “solido economista” Hunter Lewis – che immaginiamo debba una tal sua solidità all’imponente produzione cartacea della sua coazione a ripetere – tutte dedicate a mostrare “ che praticamente tutti i guai che sono davanti a noi derivano dall’applicazione cieca e ripetitiva delle tesi keynesiane” ( ibidem), che Giannino ben esaurisce elencandole in poche righe fedelmente sintetizzando il Lewis, non senza ripetere a sua volta un errore esiziale nell’interpretazione di Keynes , come vedremo più innanzi. Ecco (corsivo nostro, e su cui preghiamo il lettore di fare tutta l’attenzione possibile allorché lo richiameremo) l’elenco degli errori in cui incorrerebbe Keynes e i suoi adepti:


“ Senza interventi pubblici i tassi di interesse sono quasi sempre troppo alti […]. Il governo e i banchieri centrali devono abbassare i tassi d’interesse. I timori verso l’intervento pubblico nell’economia e per un aumento del denaro circolante sono malfondati […]. Le imposte progressive sul reddito aiutano a ridurre le ineguaglianza economica. Se si stampa una gran quantità di moneta ma i tassi non dovessero scendere abbastanza, bisogna inventare nuove misure […]. Il risparmio e la frugalità sono una pericolosa illusione, perché deprimono i consumi. Aveva torto Say, l’offerta non crea la domanda, è invece la domanda che crea l’offerta. L’unico vero rimedio al fallimento del mercato azionario e del mercato degli investimenti è l’intervento del governo. Il controllo dell’ economia da parte dello Stato non dovrebbe fermarsi ai tassi d’interesse, investimenti, tassazione e tassi di cambio, ma procedere oltre. La risposta ai pochi investimenti come alla crisi viene dalla spesa pubblica e dallo Stato. I politici devono affidarsi non al mercato ma a "esperti" per ciascuno di questi interventi. Abbassare i salari nelle crisi è sbagliato, lo è a maggior ragione nei periodi buoni. Tra una politica salariale flessibile e una politica monetaria discrezionale, va sempre preferita la seconda “( ibidem).

Si tratta di “massime keynesiane una più sbagliata dell’altra, a mio giudizio personale “ ( ricorrente “tic volterriano”, come si è detto più su ) conclude Giannino. E lì si poteva esaurire il “libro” di Lewis, visto che anche qui, nello “stile” che si è detto, non si va molto oltre la “profondità “di mere sentenze dell’autore o di altri citati, ove si ripropone tal quel ciò che Keynes intendeva confutare, esprimendo nei confronti delle tesi del cantabrigese giudizi del tipo, appunto “sbagliato”, “errore”, “non sono d’accordo”, non è d’accordo con Keynes” x,y, etc., pescando nell’inesauribile repertorio degli economisti(ci) anti-interventisti.
Su 434 pagine del testo di Lewis ( le rimanenti sono fonti bibliografiche) - che mi sono sforzato di leggere tutte, con crescente indicibile sforzo di pazienza e con accompagnamento di imprecazioni sulla assurda cecità con cui si invera il detto “habent sua fata libelli” su quelli che non meritano il positivo clamore che li accoglie - ben 50 di esse hanno richiesto da un certo punto in poi un post-it in funzione di segnalibro. Ciascuno dei quali indicante una varietà di errori e gravi insufficienze ( approssimazioni ingiustificabili, ripetizioni e incongruenze, affermazioni apodittiche prive di una qualche cogenza scientifica, fallacie logiche etc.) tale da far bocciare l’autore di un equivalente elaborato in un ipotetico esame di economia; con annesso consiglio ( con qualche dose di ipocrisia sopravalutativa ) di cambiare indirizzo di studi a favore di qualche disciplina richiedente un minore gradiente di esprit de géométrie. Daremo qualche esemplificazione più in là nel merito di un tale coacervo di “amenità”. Non prima di avvertire che alla base delle medesime quel che si impone è la costatazione di una costante che condanna dall’inizio il fallimentare tentativo di Lewis. E che evidentemente accomuna al suo autore i suoi ammiratori come Giannino. Ma anche , non a caso, quei confusi keynesian-marxisti che - come nel caso di Brancaccio che ha dibattuto con Giannino il libro in questione su Radio Sole 24 Ore ponendosi a difesa dell’autore della General Theory - non hanno minimamente colto questo esiziale fil rouge che mina ab initio l’intera tiritera lewisiana.
Concedendo al “solido economista” harvardiano l’”onore delle armi” per una esposizione sanamente “partigiana”. Ebbene, alla base di tutta la estrema fragilità argomentativa di un “libro” come Tutti gli errori di Keynes, sta il semplice eppur enorme fatto che Lewis non ha minimamente compreso Keynes, ovvero il clou che caratterizza analiticamente la sua proposta interventista. Circostanza che non è assolutamente chiara ai seguaci e difensori di Keynes in tutta la balcanizzata congerie dei suoi true believer, compresi i keynesian-marxisti. Per cui si tratta di un’autentica lite tra sordi, con il decisivo ausilio di Keynes stesso. Che ha ritenuto di aver compiuto una “rivoluzione” nella teoria economica , senza minimamente sospettare di essere semplicemente un velleitario e disarmato autore di un putsch. Fortunosamente reso credibile dalla pochezza dei suoi interpreti e dal bisogno storico-economico di aggrapparsi a una qualsiasi fola scientificamente abbigliata, purché promanante da autorevoli milieu pur di salvare il capitalismo da quella che negli anni ‘30 del XX secolo si mostrava come la peggiore delle crisi cicliche sin lì sperimentate.
In realtà il “modello” keynesiano ricostruibile attraverso una depurazione della notevole opacità della General Theory non è altro che una riformulazione del modello ortodosso neoclassico, più ricco però di determinazioni e ispirato da una filosofia meno prona al fatalismo ottimistico che è alla base della dottrina del laissez-faire. La maggior ricchezza di determinazioni consiste nella tenuta in conto della non neutralità della moneta nei confronti delle grandezze reali che si estrinseca nell’aggiunta di un mercato, quello appunto della domanda di moneta per motivi che si aggiungono a quelli della sua richiesta per fini esclusivamente transattivi come accade nel modello “ortodosso”. Oltre che fermarsi alla sola binarietà della moneta che può essere solo o spesa o risparmiata Keynes aggiunge la possibilità della sua tenuta allo stato di liquidità per fini speculativi e/o precauzionali ( “preferenza per la liquidità”): tertium datur!Con relativo mercato in più: la Borsa, dove si offre e domanda “liquidità”.
Che la dottrina del saggio d’interesse debba cambiare è un corollario di tutto ciò: se la moneta non è solo soggetta a essere o risparmiata o spesa , il prezzo del suo uso, cioè il saggio d’interesse non è più solo determinato dal parametrare lo stato delle preferenze o arbitraggio tra presente e futuro : consumo presente ( domanda di moneta) versus consumo futuro ( offerta di moneta o risparmio) della quantità di moneta presente nel sistema. Se dunque la vecchia dottrina del saggio d’interesse poteva assumere che esso fosse il “prezzo” per ripagare l’ “astinenza” ( dal consumo), Keynes ritiene che invece tale saggio ripaghi e sia quindi determinato dal prezzo “per la rinuncia alla liquidità”. Che evidentemente assorbirebbe in sé, come sua semplice componente , il prezzo da pagare per indurre chi detiene moneta ad astenersi dallo spenderla.
Ma a questo punto si impone un passaggio cruciale che in” letteratura” non è stato minimamente compreso o sospettato e che accomuna detrattori e supporter del formulatore della General Theory e che inficia irrimediabilmente alla radice il tentativo del suo autore di formulare una teoria alternativa a quella armonicistica e anti-interventista fondata sulla fede nel laissez-faire.
Se l’intento è quello di dare una spiegazione del “generale stato di equilibrio di non piena occupazione” delle risorse che l’avversata teoria esclude per definizione ( in presenza di laissez-faire e di piena flessibilità di tutte le risorse, compreso il lavoro) evidentemente questo fenomeno non può spiegarsi da sé ma deve implicare una causa. Causa che Keynes ritiene di individuare immediatamente nel relativamente troppo elevato livello del saggio d’interesse che determina un livello sub-ottimale ( non capace cioè di dar luogo alla piena occupazione) della “domanda effettiva” ( consumi + investimenti nel loro incrocio con l’ offerta globale) che risulta inferiore al dato dell’offerta globale di massima occupazione. Il relativamente troppo elevato livello del saggio d’interesse non significa affatto che esso sia assolutamente troppo alto bensì e ben al contrario che anche se al livello assolutamente basso, esso non lo è a sufficienza per stimolare gli investimenti. E per quanto riguarda i consumi tale saggio d’interesse avrebbe raggiunto una zona critica tale da risultare relativamente troppo basso per non indurre a provocare un aumento di domanda di moneta da detenere in forma liquida. Insomma la zona critica del livello del saggio d’interesse è quella che lo fa avvertire relativamente troppo alto per gli investimenti e relativamente troppo basso per chi domanda moneta a fini speculativi e/o precauzionali. Questi ultimi ritenendo che il corso dei titoli (titoli del debito pubblico) abbia raggiunto livelli troppo alti e quindi “rendimenti” ( saggio d’interesse effettuale e non nominale) relativamente troppo bassi, prevedendo una caduta dei corsi ( aumento del saggio d’interesse o rendimento) aumentano la loro propensione alla liquidità, sottraendo moneta alla quantità data di moneta presente nel circuito degli scambi, determinando così una caduta dei consumi. Diminuzione dei consumi che evidentemente non giova anche per tal verso alla propensione agli investimenti. Dunque in relazione all’obiettivo mancato della piena occupazione la zona critica del livello del saggio d’interesse di cui stiamo trattando è obiettivamente determinata : 1) da una non soddisfatta domanda di moneta per fini speculativi e/o precauzionali che non ha di meglio che alimentarsi sottraendo moneta altrimenti utilizzata peri consumi che così diminuiscono; 2) da un relativamente troppo alto livello del saggio d’interesse, per la mancata sua diminuzione che non può realizzarsi in conseguenza della diminuzione dei consumi , in quanto l’alternativa a questi non è semplicemente il risparmio ma, per una certa quantità di moneta data presente nel sistema, la scelta di aumentarne la quantità detenuta in forma liquida. Per cui il saggio d’interesse non è funzionalmente idoneo a far eguagliare “risparmi” ( quelli veri e propri + quantità di moneta detenuta in forma liquida) e investimenti. Mentre per la teoria standard, risultando gli investimenti funzione inversa del saggio d’interesse che contestualmente diminuirebbe all’aumentare dei risparmi, l’equilibrio di piena occupazione sarebbe sempre assicurato ex definizione : non potendosi non incontrare le curve dei risparmi e degli investimenti in funzione di una medesima variabile, il saggio d’interesse, con opposta inclinazione. Quindi la differenza sarebbe tutto in quel fattor e”incomodo” rappresentato dalla propensione alla liquidità non sufficientemente soddisfatta dall’offerta di moneta. In entrambi i casi ciò che alla fine risulta acclarato è che l’offerta di moneta è inferiore alla sua complessiva domanda (consumi + investimenti). In definitiva Keynes a tavolino rompe ogni necessario automatismo di incontro tra risparmio e investimenti che viene assicurato dal “modello” neoclassico. Se qui gli investimenti sono funzione inversa del ,saggio d’interesse e tale saggio diminuisce all’aumentare dei risparmi, non v’è livello di questi ultimi che non sia eguagliato dagli investimenti , per definizione sollecitati ad aumentare all’aumentare del risparmio che fa diminuire il saggio d’interesse che sollecita l’aumento appunto degli investimenti. Nel “modello” di Keynes le due grandezze in gioco sono da un certo punto in poi indipendenti ( allorché il livello del PIL si approssima a una zona critica che è quella della massima occupazione) in cui l’aumento del non consumo ( risparmio vero e proprio e moneta detenuta informa liquida)non è interamente soddisfatto dall’offerta di moneta. Evidentemente se il saggio d’interesse non è l’unica variabile che pone nel modo visto in relazione risparmi e investimenti intervenendo da un certo punto in poi il livello del PIL, da quel punto in poi “in generale” sarà vero che l’eguaglianza tra tali grandezze non è assicurata e anzi “in generale” ( come vuole il Keynes appunto della Teoria generale) non lo sarà in modo particolare a livello di massima occupazione del PIL stesso. Fin lì o meglio prima della zona critica (ovvero fin dove grosso modo il PIL risponde a una logica di mera riproduzione semplice, dove tutto il reddito è speso e/o la moneta presente nel sistema ovvero la sua data quantità offerta sarà stata per ipotesi sufficiente a eguagliare la sua domanda non solo per fini transattivi ma anche per fini precauzionali e/o speculativi) si avrà equilibrio di piena occupazione. Equilibrio che in alternativa risultando relativo a un livello di mera sussistenza del PIL rende abortiva la mera potenzialità della moneta a non essere otre che risparmiata, a fortiori, detenuta in forma liquida. Stadio questo dell’economia relativo a un mondo sostanzialmente precapitalistico che Keynes ritiene facesse da sfondo alla “teoria ricevuta” ortodossa che egli definisce “Classica” includendo in questa la sua successiva elaborazione Neo- classica.
Da quanto detto più su discende immediatamente che in panorama più realisticamente capitalistico, un aumento dell’offerta di moneta soddisfacendo l’aumento della sua domanda determinata dall’aumento della “propensione alla liquidità” non provocherebbe una diminuzione dei consumi – determinata dalla sottrazione a questi di moneta atta a soddisfare il maggior bisogno di liquidità - e con operazioni di “mercato aperto” intercorrenti tra Stato e Banca d’emissione ( verso la quale il primo si indebita operando necessariamente in deficit emettendo ulteriori titoli di debito pubblico) si potrebbe ( e fino a un certo punto, quello della “trappola della liquidità” che potremmo definire “ipercritico”) ulteriormente abbassare il saggio d’interesse sì da stimolare gli investimenti necessari a riproporre la piena occupazione (nel capitalismo).
E’ ovvio che astraendo dalla “ complicazione” di una terza alternativa all’uso della moneta oltre a quella strettamente binaria di spenderla o risparmiarla, ovvero assumendo come nulla la propensione alla liquidità il “modello” semplificato ortodosso risulta come voleva Keynes un caso particolare della sua “General Theory” , cioè valida in tutti i casi in cui tale aumento della propensione alla liquidità risulta maggiore di zero e non trova una adeguata quantità offerta di moneta atta a soddisfarla!
Ma resta il fatto che tra i “modelli” in questione esiste un legame, un vulnus “mortale” che li condanna insieme al più totale fallimento scientifico, per la loro assoluta impotenza a spiegare la madre di tutte le patologie dell’economia capitalistica: le crisi cicliche. Legame rappresentato dalla adesione di entrambe alla pestilenziale “teoria quantitativa della moneta”! Per la quale, tra l’altro, la moneta offerta ha natura di dato, o parametro, o variabile indipendente, o autonoma rispetto al resto delle grandezze economiche. Nel “modello” di Keynes ciò è palmare: con offerta di moneta avente natura endogena l’equilibrio tra la quantità di moneta offerta e domandata è assicurato anche ex ante e non solo ex post. E con ciò addio a ogni spiegazione delle “crisi” con conseguente disoccupazione. Senza la teoria quantitativa per altro verso il “modello” ortodosso neoclassico cui Keynes ha ritenuto infondatamente di aver inferto un colpo mortale, non si avrebbe una spiegazione del livello generale dei prezzi. Perché nella sua forma standard ove la moneta non conta - agendo “ as a veil” ( Pigou), cioè come mera “ombra” degli scambi tra grandezze reali - gli scambi si riducono a una mera logica di baratto con il solo insieme dei prezzi relativi con una merce qualunque assunta come numeraire ( prezzo posto per ipotesi pari all’unità). Ma in tal modo non si potrebbe spiegare né l’inflazione né la deflazione. Per spigare le quali non v’è infatti alternativa che ricorrere alla falsa spiegazione, nell’ordine , di un eccesso e difetto di offerta di moneta rispetto alla domanda. Appunto ricorrendo alla teoria quantitativa e alla corrispondente “equazione di Hume” che la sostanzia. Teoria che è poi indispensabile per poter spiegare le classiche crisi cicliche semiologicamente accompagnate da deflazione ( caduta del livello generale dei prezzi) una volta che da posizione ortodossa si debba ( obtorto collo) dare una spiegazione delle crisi stesse effettualmente inconfutabili. Crisi altrimenti assenti per definizione dal modello dove senza moneta o con moneta meramente “neutrale” sulle grandezze reali la “legge di Say” resta valida oltre che contabilmente anche nella realtà ( sia ex ante che ex post la fase di produzione e scambio) non potendosi in regime di sostanziale baratto neanche concepire una vendita senza un corrispondente acquisto ( e viceversa). Non risultando lungi dalla logica di baratto il modello “Neoclassico dove la moneta oltre a essere spesa può solo essere risparmiata . Oppure dove si dà l’inconcepibile sistematica eguaglianza tra moneta offerta e domandata pur ammettendo che tra quest’ultima sia compresa una componente relativa alla domanda di moneta richiesta in quanto tale in sé e per sé, come pura rappresentante del bisogno di liquidità, o liquidità tout court.
Ecco dove con ineludibile comune e fatale DNA l’eterodosso Keynes e gli ortodossi neoclassici sono condannati al comune fallimento analiticamente disvelato. Una volta evidentemente che si chiarisca ciò che dovrebbe essere chiaro anche a studiosi dell’occulto: che le crisi cicliche ( e quindi deflazioni cicliche) non possono per banale coerenza logico-metodologica essere spigate da un ciclico atteggiarsi di una variabile autonoma, che per definizione si manifesta con andamento imprevedibile ( random) che è l’opposto di una modalità ricorrente in una qualche sistematica forma . Ma quel che rende meglio l’idea di una tale insostenibilità teorica è il fare mente locale al fatto che risultando evidente che la crisi è solo un punto del ciclo con una offerta di moneta che ha natura autonoma nel senso visto si avrebbe l’assurdo che tale carattere indipendente della quantità di moneta offerta risulterebbe in generale sufficiente rispetto alla domanda e quindi atteggiandosi in generale come una grandezza endogena ( l’opposto di esogena) ed essere e operare solo in un caso come grandezza esogena, per l’appunto in caso di crisi.
Insomma abbiamo tutti i termini per parlare di un generale fallimento dell’unico capitolo che potrebbe e dovrebbe assegnare carattere di scienza alla “scienza economica”. Risultando, al di fuori del problema della diagnosi e terapia delle crisi cicliche del capitalismo, l’economics una inutile scienza della sola fisiologia economica , la cui vacuità come disciplina la si coglie pensando a una scienza medica che non sappia trattare d’altro che dell’agognabile stato di salute degli individui. Rimanendo muta o esorcistica, sia pure con l’ausilio di milioni di contorcimenti cerebrali e formalismi matematici, dinanzi all’arcana dimensione della patologia. Patologia economica che si esaurisce in buona sostanza nel problema -malattia delle crisi cicliche.
Possiamo ora comprendere come l’evidenziato comune salto implicito nella mancata distinzione tra “troppo alto” e “relativamente troppo altro” saggio d’interesse nel contesto della General Thery da noi richiamato a suo luogo con l’apposito “corsivo”, riveli appieno la sostanziale profonda incomprensione da parte dei Lewis e dei Giannino e anti-Giannino ( ovvero degli anti-interventisti antikeynesiani e gli interventisti pro Keynes ) del clou con cui Keynes ha ritenuto ( ancorché del tutto infondatamente) di combattere il laissez-faire e il suo corollario in materia di ricorrente “scandalo pubblico della miseria nel mezzo dell’abbondanza”: saltare l’avverbio “relativamente”, davvero sembra inverare il detto per il quale, “Il diavolo si nasconde nei dettagli”. Sempreché tali dettagli non siano, se non nel girone dell’inferno degli economisti(ci) metaforicamente da condannare alla mistica adorazione dei dettagli – non dettagli, per contrappasso. Infatti senza una domanda di “liquidità” il modello della General Theory e quello cui questa vuole opporsi coincidono del tutto; ed è solo l’insoddisfatta ulteriore frazione di domanda di liquidità che rende “relativamente” troppo alto il saggio d’interesse a scatenare la causa della non piena occupazione delle risorse. Come si è detto solo con tale ulteriore domanda di liquidità soddisfatta o pari a zero si può parlare di alti o bassi tassi di interesse in assoluto, risultando irrilevante analiticamente quel “relativamente” e con esso tutta la costruzione della General Theory.
Ancora per meglio comprendere quanto detto a proposito del madornale errore di autovalutazione da parte di Keynes nel ritenersi artefice di una rivoluzione paradigmatica. Errore in cui sono caduti adepti e detrattori , abituati a non saper andare alla radice dei problemi posti dalla autentica alta teoria, vediamo in tal senso a cosa si riduce la presunta spiegazione di Keynes della crisi e del connesso problema della disoccupazione: una insufficiente offerta di moneta che determina, in presenza di una tale insufficiente moneta quale “liquidità”, nel sistema economico ( con relativo mercato in più rispetto alla teoria avversata) una aumento della relativa propensione a detenere moneta in forma appunto “liquida” ( terza possibilità rispetto alla sola binarietà del modello neoclassico standard: spendere o risparmiare moneta).
Per i neoclassici il cui modello standard ritiene di poter fare a meno della moneta e della sua domanda in quanto tale (bisogno di “liquidità”) la crisi si manifesterebbe con l’improvviso emergere di un tale bisogno. Insomma il bisogno di liquidità in un caso ( Keynes) aumenta relativamente. Nell’altro caso questo bisogno di liquidità nasce ex abrupto, all’improvviso dal nulla, e quindi senza riferimento con un suo prius esso è un fenomeno solo assoluto mancando di terminus a quo o ad quem con cui rapportarsi.
L’equivalenza nell’ errore e le sue radici teoriche tra i due “modelli” è a questo punto palmare come abbiamo mostrato. Ma non tener conto di ciò che relativamente ( anche e proprio relativamente poco ) distingue le due costruzioni è prova innegabile di totale incomprensione di ciò a cui la presunta “rivoluzione” keynesina molto miseramente tendeva. E di tale incomprensione soffrono keynesiani e antikeynesiani nelle stesse e spesse nebbie intellettuali in cui si sono aggirati per decenni e si aggirano ancora le moltitudini di economisti(ci) di ogni ordine e grado. Non avendo risparmiato nessuno della “professione” a partire dall’indomani della pubblicazione della General Theory la necessaria e ineludibile scelta di campo tra interventisti e anti-interventisti. Non esclusi i contemporanei - e tra questi i superconfusi keynesian-marxisti - attoniti e impotenti dinanzi alla inconfutabilità del dato di fatto che il capitalismo è sempre e ancora in attesa di una fondazione scientifica adeguata a comprendere e curare la sua sindrome ciclica, manifestatasi per ultimo con la crisi globale attuale con cui si è inaugurato il primo decennio del XXI secolo. In realtà Keynes dunque non fa che dare coerenza , dando luogo alla sua apertura verso una posizione interventista, all’estorta e sgradita ammissione di una crisi ciclica di sovrapproduzione assoluta, lì dove con altro empeto di realismo gli anti-interventisti sono costretti ad ammettere che la deflazione costituisce un difetto di offerta di moneta nei confronti della domanda di merci. E che pertanto per riparare alla crisi e al suo volto e indice monetario, la deflazione, occorrerebbe che vi fosse una maggiore offerta di moneta.
Ma per altro verso del “paradosso di Mill”, per cui dell’importanza della moneta ci si accorge solo in caso di “ingorgo di merci” o “pletora di merci”, cioè di crisi di sovrapproduzione assoluta , non si è “ufficialmente” mai venuti a capo; peraltro rimuovendo, nella stragrande maggioranza dei casi, la sfida scientifica che vi è sottesa.
Tornando al “libro” di Lewis e quindi al suo valore fortemente indiziario della bussola scientifica a cui Giannino informa la sua visione delle cose economiche, e in particolare il suo antikeynesismo, non può essere considerato attenuante il fatto che di quel testo Giannino finisca per riferirsi di fatto alla sola magnificata lunga Prefazione ( “ spettacolari 35 pagine”, così le definisce Giannino sul citato numero di "Economy" del 16 dicembre 2010)di Francesco Forte.
Infatti anche quest’ultimo fornisce prova provata di cascare nell’errore topico di ignorare l’essenziale legame analitico che sussiste nella General Theory - e su cui abbiamo centrato la nostra interpretazione delle questioni teoriche in gioco - tra tasso d’interesse e offerta di moneta, affermando clamorosamente che
“ Il lato positivo delle innovazioni keynesiane sta nell’aver posto al centro del governo della moneta il tasso di interesse, in luogo della quantità di moneta emessa “ ( F. Forte, Prefazione, in H. Lewis, Tutti gli errori di Keynes, op.cit., p. 27), ignorando totalmente il comune e esiziale tributo alla teoria quantitativa della moneta sia della teoria di Keynes sia di quella dei suoi canonici oppositori ( peraltro, ci sarebbe da chiedere al professor Forte se conosce altra manovra monetaria del tasso di interesse al di là di quella affidabile alla quantità offerta di moneta!). Certo la reiterata inconcepibile incomprensione dello snodo teorico di una terza alternativa tra risparmi e investimenti, essenziale per chi voglia pretendere di criticare Keynes, maniacalmente ritorna in Lewis un tal numero sproporzionato di volte da far rischiare di vacillare una magari già malferma o superficiale informazione su ciò che la General Theory intendeva “innovare”. O magari aiutato in ciò da una disposizione a offrire un qualche pur minimo credito a Lewis. Una citazione in tal senso dal profluvio logografico dell’”opera” di questo “solido economista” può chiarire ogni dubbio :

“ Nella lettura di Keynes ci si imbatte in molti aspetti che lasciano perplessi. Nella sua Teoria Generale, egli afferma che, di norma, le persone risparmiano troppo. E propone di affrontare questo presunto problema facendo sì che il governo stampi nuova moneta, che secondo lui dovremmo considerare come . L’emissione di moneta, però, non ha molto a che spartire con il risparmio. Comunque, anche se accettassimo questa premessa, perché una maggiore quantità di questo nuovo dovrebbe contribuire ad alleviare il presunto problema costituito proprio dal troppo risparmio delle famiglie?” (H. Lewis, op. cit., p.58, corsivi nostri).

A parte il “troppo” e il “relativamente troppo” ( la cui mancata distinzione sappiamo quale abissale “ignoranza” comporta circa le cose di cui si parla nel nostro contesto di discorso), che tra l’altro rimanda alla essenziale distinzione, per Keynes, tra propensione media e marginale al risparmio/consumo, all’approssimarsi del PIL a livello di massima occupazione, (anche se abbiamo altrove dimostrato come la cosa non abbia fondamento alcuno,ma ragionando e non per “assiomi, per criticarla occorre almeno conoscerla) la citazione appena riprodotta è lapidaria nel non riconoscere legame alcuno tra quantità di moneta offerta, saggio d’interesse e quindi risparmio e/o consumo e/o propensione media e marginale alla liquidità. Qui Lewis opera, anche senza dar mostra di conoscerlo, con una possibile linea di difesa ortodossa centrata sull’”effetto Pigou ” o “ real balance effect”. “Effetto” mobilitabile contro la sequenza appena vista, che vaccina sì il sistema economico rispetto alla variabilità “autonoma” dell’offerta di moneta, facendone assorbire gli effetti ai soli valori assoluti dei prezzi ma non al loro intoccato “vettore“ (insieme dei prezzi relativi). Ma in tal modo si neutralizzano gli effetti della quantità offerta di moneta sulle grandezze reali ( si tratta dello stesso Pigou per cui “money is a veil”), assumendola come grandezza o variabile endogena ( piuttosto che esogena) ipotizzando scorte di moneta in mano ai soggetti economici. Scorte di moneta a cui si attingerebbe in caso di inflazione e ricostituendole in caso di deflazione (assumendo la costanza del potere d’acquisto della moneta detenuta come scorta e la costanza della propensione media, eguale a quella marginale, al consumo/rispamio in termini sempre reali e non monetari, in costanza dunque dei budget individuali in termini reali di consumi e scorte di moneta). Ma si dà il caso che la suddetta scelta endogenista lasci in tal modo la teoria ortodossa orfana della “teoria quantitativa della moneta”, lasciando nel buio più totale la causa dell’aumento o diminuzione ( inflazione e deflazione) del livello generale dei prezzi la cui variazione sostituisce la quantità offerta di moneta come variabile esogena nei confronti dell’equilibrio generale dell’intero sistema economico ( insomma Pigou legge dunque la “equazione di Hume” da destra verso sinistra nella sua formulazione canonica, come Marx ma a differenza di questo non potendo dire nulla sulla variazione dei prezzi assoluti). Oltre naturalmente a rendere particolarmente inspiegabili le “classiche” crisi cicliche e le relative deflazioni cicliche che le accompagnano.
Visto il maggior prezzo scientifico rispetto alla assunzione dell’opzione “quantitativi sta” da parte “ortodossa” di una tale via di difesa dal clou della General Theory questa linea pigouviana è stata abbandonata nel dimenticatoio. Ma in ogni caso di essa non vi è comunque la minima traccia nel “libro” di Lewis (in ciò in non splendida compagnia dei keynesian-marxisti, battuti solo dai marxian-wicksellian-schumpetiarian-keynesian-sraffian circuitisti à la Bellofiore e à la “Scuola di Graziani” tutta) che come abbiamo più volte sottolineato si incaponisce ossessivamente( alle pagine 155,182-183188,201204,etc.), in questa fatale incomprensione in un punto essenziale del pensiero del vituperato Keynes .
Non daremo conto delle indicazioni cui rimandano tutti i nostri 50 post-it, per pietas scientifica oltre che per fugare anche verso noi stessi il dubbio di una meticolosità o puntigliosità che faccia sospettare un qualche patologico piacere o sadismo da accanimento.
Faremo cenno solo ad alcune altre “perle” lewisiane. Solo queste atte a giustificare il pessimo giudizio che abbiamo immediatamente anticipato su questo aborto intellettuale del “solido economista” di Harvard.
A pagina 154 (e passim) , per esempio, tirando in ballo von Mises ( come se si trattasse dell’Einstein della scienza economica) si cade nella più fragorosa ridicolaggine, attribuendo le crisi cicliche all’intervento dello Stato. Invertendo ogni nesso di causa ed effetto, e Ignorando la sequenza storico-economica che separa La General Theory e le sue applicazioni dalla nascita del fenomeno, che inizia qualche secolo prima di Keynes. Inoltre non sfiorato dal dubbio della ciclicità dell’interventismo statale. E a pag 254, non contento, Lewis afferma che senza intervento dello Stato non vi sarebbe mai crisi. Va inoltre da sé che se si ignora la propensione alla liquidità, come a p. 258, se ne ignora il suo valore infinito, cioè il concetto e la relativa zona ipercritica in cui risulta inutile e spuntata l’arma anticiclica dello strumento monetario (“trappola della liquidità”), dovendosi a quel punto necessariamente ricorrere alla politica fiscale e/o a interventi pubblici ( diretti o indiretti) nella sfera reale sempre attraverso la spesa statale finanziata in deficit (deficit spending). In un sol punto Lewis sembra preso da una sorta di “illuminazione sulla via di Damasco”, tale cioè da trovare un vero vulnus – pur tra i molti - nella Teoria Generale : a proposito del ruolo ivi giocato dalle “aspettative” ( p. 277 e passim). Ma si tratta di una mal riposta speranza, condensandosi la critica sulla non quantificabilità delle aspettative stesse. D’altronde, attribuendo le crisi a investimenti “errati” ( p. 189), cioè ricorrendo a inspiegabili “errori ciclici”, a Lewis sfugge, a maggior ragione e del tutto, che la enormità della fallacia logica della “teoria dell’errore” ( per di più ciclico) si cela dietro, appena mascherata con neologismo, la stessa “teoria delle aspettative” in Keynes!
Risparmiamo a tutti il resto, e in particolare le assurdità, compreso un inesistente ripensamento di Keynes, in proposito, riguardante l’alternativa tra protezionismo e free trade. Qui semplicemente si ignora il capitolo XXIII della General Theory e la gerarchia logico-temporale che porta Keynes a predicare la esigenza di una previa piena occupazione, richiedente certamente misure protezionistiche, prima di ammettere tra partner internazionali in omologhe situazioni di pieno impiego l’apertura al libero scambio. Ora questo libero scambio abbiamo argomentato altrove essere una bufala teorica nei perduranti suoi attuali e a quanto sembra santificati fondamenti ricardiani. Ma non v’ha dubbio però che senza la piena occupazione all’interno dei paesi scambisti fra questi prevarrebbe il più cinico in termini di gravità di deflazione e di disoccupazione al suo interno rispetto ai concorrenti, innestandosi così un vero jeu de massacre . a livello del sistema economico internazionale. Come d’altronde sta avvenendo durante l’espandersi e il deflagrare attuale della Globalizzazione. Ma su questo punto abbiamo trovato in fallo famosi Premi Nobel di scuola keynesiana, e Lewis, almeno qui può vantare una meno impresentabile compagnia.
Cosa resta da dire infine su Giannino attraverso questo suo “testo di riferimento”? Leviamogli ogni Oscar, e au grand jamais , tanto per chiuderla con understatment!

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